Dabiq è il luogo nel nord della Siria dove – secondo i precetti della Sunna – dovrà svolgersi la battaglia finale tra musulmani e cristiani. È nello stesso tempo una profezia e un invito al «ritorno», al cuore delle proprie origini, nella propria casa.

Per questo, forse, gli strateghi della propaganda dell’Isis hanno deciso di chiamare così, Dabiq, la rivista che li rappresenta all’esterno del Califfato. Pubblicato in diverse lingue, magazine patinato e di buona fattura, rappresenta l’opinione dell’Isis, o di chi ne fa le veci, rispetto a quanto succede nel mondo.

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Il primo numero è apparso nel luglio del 2014 e come titolo aveva «The return of Khilafah». Da quell’esordio, si è arrivati alla dodicesima cover. Da ieri gira on line il nuovo numero che ha attirato l’attenzione dei media occidentali per alcuni contenuti specifici. Innanzitutto la copertina: pompieri e infermieri francesi sono intorno a una barella che presumibilmente sostiene una persona ferita o vittima di uno degli attentati di Parigi. Il titolo: Just terror.

 

All’interno però, quello che dovrebbe rappresentare l’editoriale non verte sui fatti parigini. Ai francesi viene ricordato, in una didascalia, che «l’incubo è solo cominciato». Perché il commento iniziale della rivista è contro la Russia, che avrebbe osato sfidare il Califfato e come tale è stata punita. Si allude all’abbattimento del Metrojet russo caduto sul Sinai con a bordo oltre 200 persone, quasi tutte di nazionalità russe, di cui si forniscono anche alcuni particolari fotografici (e logistici, sull’elusione dei controlli di sicurezza a Sharm) che dovrebbero rappresentare ordigni e inneschi utilizzati per l’esplosione (e sull’attentato terroristico nei giorni scorsi è arrivata anche la conferma dei servizi segreti russi).

 

Nel resto del numero di Dabiq ci sono articoli a carattere religioso, inserti pubblicitari (come quello della moneta del Califfo), la notizia – anche in questo caso tutta da verificare – sull’esecuzione dei «prigionieri», un norvegese e un cinese (Ole Johan Grimsgaard-Ofstad e Fan Jinghui) nelle mani degli uomini dell’Isis, interviste a miliziani e una sorta di nota politica di John Cantley, il fotogiornalista americano rapito in Siria insieme a James Foley (ucciso dall’Isis).

Proprio Cantley aveva anche realizzato alcuni video per spiegare l’organizzazione statale del Califfato e di fatto la sua grandezza, in servizi televisivi che avevano fatto il giro del mondo. Dabiq si dice sia una rivista in grado di rivaleggiare con le produzioni dei magazine più all’avanguardia, così come spesso vengono sottolineati gli stili e i gusti hollywoodiani dei film realizzati dai filmmaker dell’Isis. Può essere, ma quanto conta e colpisce è la capacità dell’Isis di strutturarsi e dotarsi di un reparto marketing e comunicazione, al pari di una qualsiasi grande azienda mondiale.

Sicuramente non mancano soldi, finanziamenti e capacità; ma non manca neanche il target, e di conseguenza il pubblico, perché il magazine distribuito in molte lingue insegue proprio quelli che sembrerebbero essere i protagonisti degli attacchi all’Occidente e della guerra condotta dall’Isis nelle aree geografiche siriane e irachene. Giovani, immigrati di seconda o terza generazione, attirati e catturati dalla forza dirompente dell’Isis, sia dal punto di vista militare, sia da quello della comunicazione, un’ovvia esca per le giovani generazioni «escluse» dai meccanismi sociali occidentali e cui viene offerta una via di fuga non solo virtuale.

Ma non ci si può fermare all’immagine e alla composizione del messaggio, come spesso accade quando si parla della comunicazione dell’Isis, perché il contenuto è fondamentale e va inteso al meglio, perché si conferma reazionario, conservatore, fascista nella sua essenza.
In uno dei vecchi numeri di Dabiq compariva la foto del piccolo Aylan – il bambino curdo morto sulla spiaggia – con un ammonimento: questo è quello che succede a chi abbandona la propria terra.

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Come sottolineato da Girolamo De Michele su Euronomade nella propaganda dell’Isis «un ruolo centrale gioca l’estremizzazione della hijrah, l’abbandonare la condizione di apostasia e peccato per fare ritorno alla verità. L’hijrah ha un’accezione metaforica ed esistenziale – il passaggio dall’agnosticismo alla pratica religiosa, dall’ipocrisia alla sincerità – ma anche una dimensione di vero e proprio esodo, sulla quale forzano la lettura la propaganda del Daesh».

Non a caso un numero di Dabiq si intitola proprio, A Call to Hijrah, un altro Remaining and Expanding un altro ancora From Hypocricy to Apostasy: The Extinction of the Grayzone.

L’invito esplicito della rivista ai suoi lettori è quello di avere un ruolo non attivo in Occidente e tornare – da protagonisti della propria vita – all’origine, al Califfato. Ed è in questo senso che esiste «l’odio verso il profugo che accomuna jihadisti e razzisti» .

Ed ecco che una risposta nostra, europea, all’Isis è proprio quello di consentire, invece, il flusso delle persone e attivarle nel contesto politico considerato «lontano» dal proprio, trasformandolo nella «propria casa».