A chi racconta in giro la vischiosa e interessata bugia che i Settanta sarebbero stati solo «anni di piombo», e non, secondo la definizione uguale e contraria di Erri De Luca, «anni di rame» cioè anni di super-conduzione di idee, di allegria, di vibrazioni giuste, bisognerebbe imporre l’ascolto di qualche disco dei Gong. Il capitano della navicella, che poi era a forma di teiera volante, Daevid Allen se n’è appena andato dal pianeta Terra, facendo rotta per il suo Planet Gong. Esattamente come Sun Ra è tornato su Saturno. Ma Daevid Allen, settantasette anni e la grazia stralunata di un folletto che è andato un milione di volte oltre lo specchio di Alice se n’è andato con una risata liberatoria. Come Tiziano Terzani. Aveva dichiarato di recente: «Non ho alcuna intenzione di sottopormi a operazioni infinite, ed in un certo senso sapere che la fine è vicina è un sollievo. Credo fermamente nel concetto della “Volontà di Come Vanno le Cose”, e credo anche che sia giunto il momento di smetterla di resistere e negare, e di arrendersi all’evidenza dei fatti. Posso solo sperare che durante questo viaggio, io abbia contribuito in qualche modo alla felicità delle vite di qualche altro compagno essere umano».

Altro che se ne ha lasciata, di felicità. Lasciando in eredità una montagna di musica importante, spesso struggentemente bella, facile da ascoltare ma piena di sperimentazioni inaudite, e con un dono raro e temibile, per il potere: musica che faceva anche ridere e sorridere. Ancor di più, se, sulla scorta dei tè del Signor Allen, la piantina dalle piccole foglie era addizionata di verde Maria Giovanna. Allora il viaggio con i Gong era come ascoltare i Pink Floyd cosmici di Interstellar Overdrive che raccontassero barzellette sugli alieni. Non ce la faceva proprio a essere solo un serissimo musicista, il Signor Daevid Allen. Era molte altre cose assieme, un mazzo di possibilità strappate alla vita giocando (e lui ne aveva vissute tre o quattro assieme, per quanto aveva fatto) che ne facevano una figura unica e inimitabile: si dice spesso quando qualcuno se ne va. Ma Allen lo era davvero inimitabile. Un beat, poeta e assai freak australiano che segna la storia del prog rock in Europa e nel mondo, che inventa tecniche uniche di slide guitar, che flirta con il punk, la psichedelia, le avanguardie di ogni segno, che si ritrova poi già attempato a guidar taxi per sbarcare il lunario, senza piangersi addosso, e che alla fine chiude da par suo la storia come la aveva iniziata: con l’ultimo capitolo della saga Gong, e con un recital di poesia beat. Senza un’oncia di passatismo. Tutto in fieri, sempre. Con un unico obiettivo: smascherare i re nudi di un capitalismo ultraliberista sempre più aggressivo e ostile ad ambiente ed esseri umani, e fare grande musica che indicasse qualche possibile «altrove». Un «Altrove» possibilmente sorridente, coloratissimo, e pieno di gente creativa senza l’angoscia di vivere per lavorare.

Un Freak Brother se mai ce n’è stato uno. Ma che ha prodotto e diffuso più gioia e arte di Marchionne, questo è sicuro. Era nato a Melbourne nel 1938, e lì, dall’altra parte del mondo aveva scoperto i poeti beat lavorando in una libreria. Dunque rotta verso l’Europa, Parigi, a fare mille lavori per sopravvivere (e vivendo nella stanza del Beat Hotel dove prima alloggiavano Allen Ginsberg e Peter Orlovsky!), e poi per l’Inghilterra: dove conosce William Burroughs, e trova modo di mettere su il primo gruppo, Daevid Allen Trio: con un sedicenne che promette assai bene, dietro pelli e piatti, si chiama Robert Wyatt. Ecco il nucleo di quello che diventeranno i Soft Machine, gente che si troverà a rivoluzionare il mondo del rock con massicce iniezioni di jazz libertario e psichedelia, e viceversa, esattamente in contemporanea con quanto andava elaborando, su piste simili ma non identiche, Miles Davis a un oceano di distanza.

Nel 1968 Allen, dopo aver dato il «la» iniziale ai Soft Machine è per le strade infuocate di Parigi, quelle che «sotto il selciato nascondono le spiagge». Gli sbirri non devono vedere troppo bene quell’allampanato trentenne vestito di stracci colorati che declama poesie e distribuisce peluche alla truppa. Lui si ritrova a Maiorca e, nel ’69, nasce il primo disco a nome Gong, Magick Brother. A fianco ha la compagna Gilli Smith, alter ego al femminile e in declinazione sciamanica e strega buona di Daevid, una vita a separarsi e ritrovarsi senza rancore. Lei, specialista in «space whispers», qualsiasi cosa siano i «sussurri spaziali». Senz’altro qualcosa di molto meno negativo dei vocalizzi acidi di Yoko Ono. Gli anni tra il ’72 ed il ’74 sono cruciali, per la nascita e la diffusione della mitologia freak dei Gong: in quel periodo nascono i tre dischi capolavoro che raccontano una storia strana, stranissima ma assai familiare per milioni di aderenti ai «movimenti» che hanno preso di petto le ipocrisie borghesi, e magari si rilassano a forza di canne. È la «trilogia della Teiera volante». Una musica inaudita fatta di corpose iniziazioni di space rock, aperture sperimentali jazz, delizie melodiche che ricordano le «rime per bambini» della cultura anglosassone, e altre assortite e caotiche stranezze, ecco le note dei Gong. Al centro c’è la voce beffarda di Allen e la sua chitarra che prende derive spaziali. L’altra chitarra è Steve Hillage, che dal maestro australiano imparerà quasi tutto. Ai fiati Didier Mahlerbe, un principe a venire della world music.

Nella mitologia Gong s’incontrano folletti-alieni che hanno un’elica in testa e volano su teiere, emissari del pianeta pacifista Gong, che trasmette sulle frequenze di «Radio Gnomo invisibile», captabili con appositi orecchini magici. Allen è, antropologicamente, l’eroe culturale che diventa mediatore fra i due mondi, e che dovrà portare al risveglio gli esseri umani, ma in mezzo a mille avventure e disavventure che assomigliano, molto, a diversi riti di iniziazione di svariate culture della visione. Tant’è che Daevid Allen riprenderà anche a distanza di decenni le vicende del pianeta Gong: in Shapeshifter, del ’92, in Zero to Infinity, del 2000, dove il protagonista è diventato una sorta di androide disincarnato, in 2032 , e nell’estremo I See You, 2014 che rimarrà l’ultimo disco dei Gong, a ben vedere profetico già dal titolo. Non solo «Io ti vedo», ma anche qualcosa come «arrivederci a presto».

Gong aveva sporato anche altre creature parallele: Planet Gong, Mother Gong, New York Gong (con Bill Laswell: difficile immaginare qualcosa di più inconciliabile, sulla carta, ma il Signore delle Teiere era Ying e Yang assieme e poteva farlo) , Acid Mothers Gong (pazzesco incontro fra i freak psicheledici giapponesi Acid Mother Temple e Daevid Allen), e anche uno spin off decisamente dedito al puro jazz rock a seguire la trilogia magica, i Pierre Morlen’s Gong. Allen, ogni volta che poteva, tornava a visitare la saga Gong. Aggiungendo tasselli e segnali, il cui culmine, forse, è stato un concetto olandese nel novembre del 2006, quando su un palco di Amsterdam (e dove sennò?) s’era riunita la classica formazione Gong della Trilogia della Teiera. Prontamente replicato, il tutto, a Londra. Nell’ultimo recital poetico Allen, due settimane prima di morire, Daevid Allen ha pronunciato queste parole: «Ma in fin dei conti cos’è morire se non starsene nudi esposti al vento e sciogliersi nel sole? E cosa significa smettere di respirare, se non liberare il respiro dalle sue affannose maree, che possa saltar fuori, espandersi, e cercare dio senza più fardelli addosso? Solo quando bevi dal fiume del silenzio ti metterai a cantare. E quando arrivi in cima alla montagna, è a quel punto che comincia l’ascensione. E quando la terra reclamerà le tue gambe, è a quel punto che potrai cominciare a danzare».