Ho ricevuto da amici e amiche che stimo un invito per un prossimo incontro (domenica 11 dicembre a Roma) intitolato ricominciamo dal No(i).

L’idea è che chi, come i promotori e le promotrici, ha fatto campagna e votato No al referendum da una posizione di sinistra, si ritrovi per rilanciare uno scambio e un confronto – partendo dalla difesa «non statica» della Costituzione – con la speranza «che tutti i nostri No possano trasformarsi in una “politica in comune”».

Ho subito pensato: in comune con chi?

Evidentemente non con quanti, pur essendo – o quantomeno considerandosi – di sinistra, hanno votato Sì, e forse nemmeno con chi, come me, ha preferito votare né Sì né No. Domande che mi sono fatto prima di conoscere i risultati del referendum, e tanto più dopo.

Detto in parentesi: il voto è stato notevole, storico, per la partecipazione e per la quantità di consensi al No. Però non mi ha sorpreso: lo stesso iper attivismo mediatico e per lo più polemico del premier ha stimolato una reazione in cui immagino si siano mischiati la fondata preoccupazione per una riforma pasticciata e per la difesa della Costituzione, con varie forme di avversione politica e anche umana nei confronti di Renzi e del suo governo, e per tutto quello che rappresenta, o si presume che rappresenti.

Chi poi ha fatto i calcoli sui voti assoluti che il pur screditato sistema dei partiti esistenti è più o meno in grado di mobilitare sapeva che l’impresa del segretario del Pd e dei suoi scarsi e poco seducenti alleati era pressochè impossibile.

Del resto il suo approccio mi è sembrato del tutto sbagliato fin dall’inizio: chi di casta ferisce, mi verrebbe da dire, di casta perisce (tanto più se, di questi tempi, è al governo da quasi tre anni e frequenta persone che a vario titolo hanno potere e risorse).

A maggior ragione – e dopo aver ascoltato le prime reazioni di Salvini, dei grillini e di Brunetta – capisco che la sinistra alla sinistra del Pd avverta l’esigenza di distinguere il proprio No da quello delle varie destre. Ma perché farne una sorta di argine identitario? Perché ricadere in questa ossessione di un Noi rassicurante, evidentemente dopo la perdita di altri dispositivi di riconoscimento comune?

Impressione negativa rafforzata da quanto ha detto al manifesto Nicola Fratoianni, uno dei partecipanti all’incontro: «Il No e il Sì non sono la stessa cosa. Il No è il frutto di un’altra idea di società. La sinistra del Sì vuole una democrazia senza popolo, senza partecipazione e senza conflitto sociale. Dal No dobbiamo costruire un elemento di rivolta». Termine quest’ultimo non usato a caso, giacchè poco dopo Fratoianni afferma che «il tempo del riformismo è finito». Si riferisce alla evidente crisi dell’universo politico socialdemocratico.

Ma che significa? Che «ribellarsi è giusto»?

Dai pensieri malinconici sull’incapacità a sinistra di incuriosirsi verso chi si percepisce diverso da come si suppone di essere mi ha distratto e un po’ consolato la notizia che un campione nel No come Gustavo Zagrebelsky non solo suona bene il pianoforte, ma si è esibito insieme a un esponente del Sì, il violoncellista Mario Brunello.

Insieme hanno scritto un delizioso libretto (Interpretare. Dialogo tra un musicista e un giurista, Il Mulino) in cui si spiega come di un tema di Bach o del primo articolo della Costituzione siano possibili letture tanto diverse quanto non arbitrarie.

L’altro ieri hanno interpretato in pubblico Schubert. Un giovane che inventò musiche nuove e meravigliose senza avvertire il bisogno di “rottamare” chi lo aveva preceduto. (Certo, era gente come Beethoven…).