È difficile definire il momento preciso al quale attribuire l’avvio del complesso percorso politico, militare ma anche culturale e sociale che ha assunto il nome di Resistenza e che rimanda alla lotta di Liberazione contro l’occupante tedesco, dalla quale derivò l’Italia democratica e costituzionale. Se ci si richiama all’aspetto più strettamente bellico, allora l’inizio coincide con lo stesso sbandamento del Regio esercito, dopo l’ufficializzazione della firma dell’armistizio, l’8 di settembre del 1943. Già il giorno successivo, infatti, alcuni reparti armati, costituiti da militari refrattari sia al consegnare le armi ai tedeschi sia allo sbandarsi, come invece andava facendo la grande parte dei loro commilitoni, si adoperarono, in totale mancanza di direttive da parte dei comandi, per cercare di mantenere una qualche autonomia operativa.

Le zone di confine, come il Piemonte, la Valle d’Aosta, la Liguria ma anche il Nord-Est, costituirono i primi fulcri territoriali di aggregazione di quello che si rivelerà essere poi un lungo percorso di lotta. Non di meno, anche in centro Italia, come nell’Abruzzo, si ripeterono alcuni fenomeni di tale segno. Così come a Roma, negli scontri a Porta San Paolo, dove militari e civili si opposero, armi in pugno, all’occupazione tedesca. Del pari, con episodi bellici particolarmente cruenti, ed in particolare a Cefalonia e a Corfù, i reparti del Regio esercito che non intendevano cedere agli ultimatum passarono allo scontro diretto. La totalità di essi verrà sopraffatta e annientata, con l’eccezione di alcune unità minori, nei Balcani, passate poi alle Resistenze locali, tra Jugoslavia e Grecia, dove già allora il partigianato era particolarmente diffuso, grazie al largo seguito popolare. Se invece il rimando è alla dimensione civile, allora già gli scioperi del marzo del 1943 costituiscono un primo punto di partenza. Anche l’inefficace repressione da parte fascista segna il passo in tale senso.

La renitenza alle armi
Alcune migliaia di arresti non fermeranno il movimento di crescente opposizione che, soprattutto nel Nord del Paese, va prendendo corpo. Lo sbarco angloamericano in Sicilia a luglio e l’arresto di Mussolini, due settimane dopo, aprirono quindi una fase di transizione, dominata dall’incertezza. Che sarà un fattore determinante nella repentinità degli eventi di settembre, quando l’apparato militare, ma per buona parte anche quello istituzionale e amministrativo, si sfalderanno. Dopo di che, a fare assumere da subito una piegatura politica al nascente fenomeno resistenziale, sono soprattutto tre scelte nazifasciste: la costituzione della Repubblica sociale italiana nel centro-nord, di fatto un organismo collaborazionista, voluto dei tedeschi ma da loro stessi tenuto in scarsissima considerazione; l’emanazione dei bandi di reclutamento nei ranghi delle unità neofasciste, destinati dal novembre di quell’anno a incentivare una diffusa renitenza e, con essa, la fuga dei giovani, chiamati alle armi, verso le formazioni partigiane; la condotta delle truppe occupanti nei confronti dei civili italiani, improntata a gratuita brutalità e a spietata prevaricazione.

Rispetto a quest’ultimo punto, strategico nella considerazione che gli italiani maturano dell’ex-alleato, basti ricordare che il primo massacro di ebrei avviene a Meina, sul lago Maggiore, già il 22 e il 23 settembre mentre negli stessi giorni ha corso il primo eccidio di Boves, in provincia di Cuneo. La sollevazione della città di Napoli, tra il 27 settembre e il 1° ottobre, segna un altro transito, basato sulla diffusa partecipazione popolare al moto di ribellione.

I Comitati di Liberazione Nazionale
In questa accelerazione e radicalizzazione di processi perlopiù spontanei o basati ancora sull’auto-organizzazione, il risorto antifascismo fatica ancora ad inserirsi, scontando un deficit di legittimazione sociale derivante dalla sua sostanziale irrilevanza nel lungo ventennio fascista. Non di meno, gli Alleati sono assai poco disposti ad accordargli il ruolo di interlocutore politico, temendo che ciò possa attivare dinamiche non facilmente gestibili. Solo a novembre del 1943, infatti, a due mesi di distanza dalla costituzione dei Comitati di liberazione nazionale, viene istituito il primo comando delle brigate Garibaldi e con esse i Gruppi di azione patriottica, destinati ad agire come cellule armate nelle grandi città.

La dialettica tra opposizione politica, con i ricostituiti partiti antifascisti, che cerca di orientare i processi in atto nel senso della propria auto-valorizzazione, la diffusione di unità partigiane, a volte in rapporto competitivo se non conflittuale tra di loro e la diffidenza delle autorità monarchiche, riparate nel Sud d’Italia, in ciò sostenute da Londra e, in misura minore, da Washington, congiurano per un rallentamento se non un’anestetizzazione della partecipazione collettiva al mutamento in atto. Non di meno, il calcolo prudenziale dei più è che tanto dipenderà dai tempi in cui le due armate alleate, che nel mentre stanno faticosamente risalendo la Penisola, termineranno la loro campagna militare. Poiché, al momento, il ruolo militare dei resistenti è principalmente quello di condizionare gli occupanti rendendone più insicure le retrovie.

L’inverno del 1943 è quindi non solo difficile ma per più aspetti incerto. La consistenza delle «bande», che operano prevalentemente nelle aree appenniniche e nel Nord-ovest della Penisola, è contenuta e, nel medesimo tempo, mutevole. Anche per questa ragione, oltre che per affermare il loro coordinamento politico, alla fine di gennaio del 1944, dopo il congresso nazionale dei Comitati di liberazione tenutosi a Bari, nasce il Cln Alta Italia, che da quel momento dirigerà la grande parte delle attività delle formazioni resistenziali. A questo punto due nuovi eventi intervengono, condizionando l’evoluzione in corso: da una parte il nuovo bando di arruolamento della Repubblica sociale, che accelera la fuga in montagna di diversi giovani delle classi 1924 e 1925, altrimenti minacciati di morte per la loro renitenza; dall’altra, la nuova ondata di scioperi nelle fabbriche settentrionali, questa volta con una ben più marcata connotazione politica rispetto all’anno precedente. Si tratta di due prove di forza, da opposte posizioni, che vedono i neofascisti repubblicani uscirne fortemente ridimensionati. Anche per questa ragione, nonché per la riluttanza tedesca ad affidare a ciò che resta dell’ex alleato un ruolo militare, si avvia una lunga stagione di rastrellamenti, che da aprile in poi attraverserà quasi tutto l’anno, con periodiche razzie nei luoghi di insediamento delle unità partigiane maggiormente attive. Si parte dall’Appennino ligure per poi proseguire, sia pure a fasi alterne, ovunque i tedeschi intendano garantirsi retrovie sufficientemente sicure. Le brutalità contro i civili non si contano, divenendo una prassi costante, se non l’essenza stessa, di queste azioni. La liberazione di Roma, il 4 giugno 1944, dopo lo stallo militare alleato dei mesi precedenti, ancora una volta sembra essere il segno dell’imminente tracollo dell’occupante. Il quale, tuttavia, si assesta, nel primo autunno, sulla linea Gotica, tra l’Apuania e il litorale pesarese. La convinzione dei molti, quella per cui tutto sarebbe finito nel volgere di poco tempo, che aveva tra l’altro alimentato l’ingresso copioso di numerosi giovani nelle oramai strutturate unità partigiane, subisce così un secco contraccolpo.

Nel mentre, a fronte della scelte politiche che vanno maturando nel «Regno del Sud», tra una monarchia che inizia a dovere recedere dalle sue prerogative sovrane, la pressione di governi di coalizione costituiti dai partiti antifascisti e i calcoli di circostanza degli anglo-americani, in previsione di una futura spartizione del Mediterraneo, nasce il Corpo volontari della libertà, inteso come organo militare di coordinamento delle formazioni partigiane, mentre fiorisce la breve ma intensa stagione delle Repubbliche partigiane, a partire da Montefiorino, in provincia di Modena.
Nel primo caso la valenza politica del nuovo organismo sta nell’assunzione, da parte degli Alleati, altrimenti recalcitranti, della sua natura di interlocutore unitario, dotato quindi di una legittimità di dialogo, mediazione e decisione. Le repubbliche partigiane (più di una ventina nel 1944), ancorché fragili, configurano invece esperienze di auto-governo territoriale dal basso, dove i civili e le formazioni combattenti condividono scelte e condotte.

Le stragi naziste
Le prime dopo vent’anni di dittatura. Il consolidamento dell’apparato militare tedesco sulla linea difensiva che attraversa gli Appennini centro-settentrionali si accompagna quindi ad una nuova stagione di brutalità contro i civili indifesi. Rientrano in questo triste computo, tra gli altri, gli eccidi estivi di Sant’Anna di Stazzema, a Lucca e di Marzabotto, a Bologna. Ad ottobre è oramai evidente che un altro inverno di occupazione è alle porte. Peraltro l’impegno militare alleato, già piuttosto contenuto, subisce un’ulteriore stasi, dettata anche da nuove considerazioni di ordine politico, nel frattempo intervenute: l’invasione della Normandia, il decremento della pressione sovietica sui Balcani, la rinnovata valutazione della rilevanza secondaria del teatro di guerra italiano rispetto agli equilibri politici a venire, sono fattori che inducono a decelerare il passo. Si inserisce in questo quadro, in un inverno di per sé durissimo per le unità ribelli, scarse se non prive di rifornimenti, sottoposte ai martellanti rastrellamenti e ad un clima straordinariamente rigido, il cosiddetto «proclama Alexander», che chiede ai partigiani di interrompere le loro operazioni, in attesa della ripresa dell’offensiva alleata. A lato di ciò si intensifica l’azione diplomatica. Gli Alleati, in cambio di sostegni selettivi di ordine militare, logistico ed economico, ottengono la sottoscrizione, da parte degli organismi politici della Resistenza, dell’impegno che, una volta completata la liberazione del Nord d’Italia, le formazioni armate sarebbero state smobilitate. Il governo dell’Italia liberata riconosce a sua volta il Cln Alta Italia come suo rappresentante nei territori ancora occupati. Si tratta di un intreccio di mediazioni politiche che rivelano quanto la Resistenza, nel giro di un anno, abbia comunque maturato un peso rilevante, passando da arcipelago composito di piccole bande a vera e propria protagonista della scena collettiva.

Nei primi mesi del 1945 i tempi sono maturi per la svolta decisiva. Mentre vengono stabiliti i piani per l’insurrezione generale e per la protezione degli impianti produttivi da eventuali sabotaggi nazifascisti, con l’inizio di aprile riprende l’offensiva alleata, con il successivo sfondamento del fronte sul versante tirrenico. Nel volgere di due settimane cadono in mano partigiana le grandi città del Nord, anticipando l’arrivo degli angloamericani. L’obiettivo politico è di stabilire una temporanea primazia italiana sui grandi centri abitati, cosa che si verificherà in tutto il Settentrione, con l’eccezione del confine orientale, conteso dalle truppe di Tito. Il 2 maggio, alle ore 14, entra in vigore la resa totale e incondizionata delle truppe d’occupazione tedesche in Italia, sulla base dell’accordo firmato tre giorni prima a Caserta.

I numeri della Resistenza
Dopo la cessazione dei combattimenti, saranno circa 400.000 persone a vedersi riconosciute le qualifiche di partigiano, di patriota e di benemerito. I caduti ammontano a 44.700 elementi, deceduti in combattimento o per assassinio. Altri 21.200 sono i mutilati e gli invalidi. Le donne combattenti sono state circa 35.000, mentre altre 70.000 furono parte attiva dei gruppi di difesa femminile. I deportati, insieme ai 730.000 soldati italiani imprigionati come internati militari, furono oltre 35.000, di cui circa 7.000 civili ebrei. Il tasso di sopravvivenza non superò in genere il 10%. Le stragi tedesche sul territorio italiano si calcolano siano state circa 400, per un totale di 15.000 vittime. Ma se le misure di grandezza sono oramai assodate, le cifre esatte è improbabile che possano darsi una volta per sempre, con millimetrica certezza.