«È il frutto della mia immaginazione, o c’è in corso una guerra del petrolio con Stati uniti e Arabia Saudita da una parte, contro Russia e Iran dall’altra?». È quanto si è chiesto il vincitore di due premi Pulitzer Thomas Friedman, sul New York Times a inizio novembre, quando si è cominciato a registrare il sintomo di qualcosa in corso da tempo e ormai in divenire. Negli ultimi tempi, infatti, nonostante alcuni eventi geopolitici abbiano creato condizioni per scenari differenti, si è assistito ad un aumento della produzione di petrolio e ad un abbassamento progressivo del suo prezzo. Chi ci perde? La situazione ovviamente non favorisce le economie dei Paesi che il petrolio lo producono, o di quegli Stati non intaccati da vere e proprie guerre in casa: Russia e Iran. Negli ultimi mesi i media internazionali si sono occupati della stramba situazione, prefigurando la «guerra del petrolio» come un nuovo e contemporaneo terreno di confronto del mondo ormai multipolare. Non tutti concordano sulla visione di scontro geopolitico: sul Corriere Economia del 3 novembre l’esperto di petrolio Daniel Yergin, pur confermando il calo vertiginoso del prezzo dell’oro nero, dal 20 al 25%, con il prezzo arrivato a 85 dollari al barile, ha specificato di non ritenere in corso una guerra, ma semplicemente un naturale andamento del mercato.

I «guru» che ritengono che il mercato si muova di vita propria, fanno una certa presa sulla stampa occidentale; ma in casi come quelli in corso in queste settimane, riteniamo che una corretta visione di quanto è in corso, sia ad appannaggio di osservatori più cinici, alla Friedman. È indubbio che il mondo multipolare abbia portato a nuovi equilibri, o per meglio dire disequilibri, e che ormai lo scontro tra potenze regionali e potenze che mirano ad un dominio totale, come gli Usa, si riservi di essere ritrovato in ogni ambito. E quello petrolifero non è un business da poco, anzi, si tratta di un meccanismo capace di influenzare le politiche degli Stati. Cosa è successo dunque in questi ultimi mesi? L’Economist ha provato a spiegarlo, ponendosi – come Friedman – una domanda retorica: «L’Isis sta ancora avanzando, la Russia, terzo più grande produttore al mondo, è coinvolta nei fatti ucraini. Iraq, Siria, Nigeria e Libia, tutti produttori di petrolio, sono in subbuglio. Ma il prezzo è sceso di oltre il 25% da 115 dollari al barile a metà giugno a meno di 85 dollari a metà ottobre, per poi risalire di poco. Tale cambiamento ha conseguenze globali. Chi sono i vincitori e vinti?» Nella premessa alla domanda, innanzitutto, sembra esserci una sorta di risposta al «naturale andamento del mercato» prospettato da Yergin. Ovvero, se i principali paesi che producono petrolio sono di fatto in guerra, il rischio reale dovrebbe essere quello di una potenziale diminuzione dell’offerta. E invece la produzione aumenta, ma diminuisce il consumo (da Europa e Cina per il rallentamento delle proprie economie). E l’anomalia prosegue, perché il prezzo del petrolio si abbassa.

Quanto alla domanda dell’Economist, non sembrano esserci dubbi: i vincitori in questa situazione sarebbero Usa e Arabia Saudita (il Washington Post lo ha chiarito in un titolo a proposito, «Scende il prezzo del petrolio e questo è positivo per gli Stati uniti e negativo per Mosca») mentre gli sconfitti sarebbero Russia e Iran. Saranno soprattutto queste due economie a risentire della contrazione del prezzo (per la Russia la vendita di petrolio significa il 60% delle entrate totali, per l’Iran il 40). Quale potrebbe essere lo scenario a cui questa sottile guerra commerciale sta puntando? Non è difficile intuirlo. Dalla Russia ci si aspetta – con in più il carico delle sanzioni – un atteggiamento più cauto riguardo l’Ucraina. Gli Usa vogliono una Mosca più prona ai voleri Nato e meno attiva, probabilmente, sullo scenario internazionale (basti pensare agli accordi con la Cina). Dall’Iran, ci si attende più malleabilità nei prossimi negoziati per il nucleare, da effettuarsi proprio con Washington.

Per i fautori della teoria del «naturale andamento del mercato», invece, sarebbe successo questo: la guerra scatenata dall’Isis invece di paralizzare il mercato, ha creato una sorta di sovrapproduzione di petrolio, perché l’Isis si finanzia anche con l’oro nero. Da 200 mila al giorno la produzione di barili sarebbe diventata di oltre 800mila. La questione è che sia la visione di quanto accade che fa Yergin, sia quella che fa Friedman, utilizza gli stessi dati e le medesime considerazioni: sovrapproduzione nelle zone colpite dal conflitto in Medio oriente, crisi economica in Europa, rallentamento della locomotiva mondiale cinese e rivoluzione americana con lo shale gas. Si tratta di sottolineare o meno, in chiave geopolitica, questi dati. È quanto fa Friedman, quando afferma che il calo dei prezzi è sicuramente il risultato del rallentamento dell’economia in Europa e in Cina, combinati con il fatto che gli Stati uniti stanno diventando uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo. «Il risultato netto – ha scritto Friedman – è stato quello di rendere la vita difficile per la Russia e l’Iran, in un momento in cui l’Arabia Saudita e gli Stati uniti li stanno affrontando in una guerra per procura in Siria. Questo non è solo business, perché c’è la sensazione che si tratti di un guerra con altri mezzi: con il petrolio».