Mentre New York e il mondo intero discutono animatamente della mostra su Björk, criticatissima, il MoMA inaugura un’altra retrospettiva, dedicata alla produzione architettonica dell’America Latina dal 1955 fino ai primi anni ’80 (visitabile fino al 19 luglio). A due anni dalla grande mostra su Le Corbusier e il paesaggio, curata da Jean-Louis Cohen, a tre da quella su Labrouste e a sei dall’esposizione sul Bauhaus, il museo newyorchese e il suo chief curator uscente, Barry Bergdoll, continuano a comporre il loro grande mosaico modernista, rivolgendo questa volta l’attenzione a una delle più interessanti terre promesse dell’architettura del Novecento.

Era dal 1955, come ci ricorda Bergdoll nel catalogo di Latin America in Construction: Architecture 1955 -1980, che il MoMA non proponeva una monografica sul subcontinente latino. La vecchia Latin American Architecture Since 1945 puntava tutto su una visione internazionalista che vedeva i territori latinoamericani come uno degli scenari tipici dell’urbanizzazione accelerata del dopoguerra, del modello economico incentrato sullo sviluppo a tutti i costi (developmentalism), dell’applicazione intensiva dei precetti architettonici di Mies, Le Corbusier & soci.

La mostra curata da Bergdoll insieme a Patricio del Real e agli esperti Jorge Francisco Liernur (argentino) e Carlos Eduardo Comas (brasiliano) costruisce invece una visione più complessa e distante, dove il modernismo interseca non poche tracce locali e vernacolari e dove il modello economico, a sessant’anni di distanza, può essere ri-visto alla luce di crolli e ripartenze successive e dell’onnipresente instabilità politica «sudamericana».

La rassegna occupa l’intero spazio dedicato alle esposizioni speciali al sesto piano del museo. L’allestimento si apre con i memorabilia del precedente del 1955 e con un sofisticato collage di filmati d’epoca dedicati alla crescita delle città latinoamericane nella seconda parte del novecento (Montevideo, Buenos Aires, San Paolo, Rio de Janeiro, Caracas, Mexico City e anche L’Avana). Dopodiché, gran parte delle opere si dispongono in un unico grande spazio tagliato da pochi pannelli divisori: i bellissimi disegni e fotografie storiche (integrate dalle splendide visioni di Leonardo Finotti) alle pareti e al centro modelli di vario genere, originali e prodotti appositamente per la mostra. I primi fanno parte del patrimonio specifico dell’esposizione, insieme a numerosi schizzi e disegni originali, i secondi – site-models in legno o grandi maquette smaltate che sezionano gli edifici – cercano di guidarci dentro le città e gli edifici cult dell’architettura latinoamericana.

La sequenza espositiva è blandamente organizzata intorno a sei sezioni trasnazionali: prelude, urban laboratories, cities in transition, housing, export e utopia. Entrati nello spazio principale della mostra, più che seguire le sezioni viene però voglia di abbandonarsi all’attrazione che esercitano disegni e progetti spettacolari (e importantissimi) che raramente abbiamo potuto vedere «dal vero». A partire dai disegni di Barragan per le mitiche Towers di Mexico City agli schizzi di Costa e Niemeyer per Brasilia, dal lungomare di Rio di Burle-Marx alla chiesa in mattoni di Eladio Dieste a Montevideo, dal padiglione di Osaka di Mendes da Rocha alla biblioteca sospesa sulla città di Clorindo Testa a Buenos Aires, dal modello originale del museo della Bo Bardi a San Paolo agli appunti autografi di Lucio Costa per una lezione su Brasilia.

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National School of Plastic Arts, Havana, Cuba, Ricardo Porro, 1961-1965. © Archivo Vittorio Garatti

Per smontare e guardare dentro all’incantesimo ricorrente di un’architettura sudamericana fatta di poesia lecorbusiana, ingegneria pesante e un sacco di cemento, i curatori si affidano ad alcuni progetti cardine, utili a illuminare in modo più profondo i rapporti tra gli architetti latinoamericani e la società. Prima di tutto i grandi campus universitari, simbolo sia del ruolo centrale affidato all’educazione dalle giovani nazioni postcoloniali che della consapevolezza della «città universitaria» come luogo eletto della sperimentazione urbanistica più avanzata. Bergdoll si dilunga sul valore progressivo dell’eroico progetto di Mario Pani e Enrique de Moral per l’Unam di Città del Messico, con la chiarezza dei suoi percorsi stradali e pedonali e la forza civile della sua architettura, e sul piano di Carlos Raul Villanueva per la città universitaria di Caracas. Progetti che secondo l’autore chiarificano come l’America Latina non avesse solo deciso di allinearsi alle posizioni moderniste ma che ne fosse piuttosto un’avanguardia particolarmente viva, attenta prima degli altri alle questioni legate alle tradizioni locali, al clima, al rapporto con le culture espressive e con l’arte. Un’altra pietra miliare della narrazione è l’accoppiata tra la sede Cepal – Nazioni Unite di Santiago del Cile, realizzato da Emilio Duhart e Roberto Burle-Marx tra il 1960 e il 1966, e l’impressionante sede del Banco de Londres di Clorindo Testa, costruita tra il ‘59 e il ’66 nel centro storico di Buenos Aires.

Due capolavori che dicono molto di come in un continente inquieto e vivace circolavano sia le idee architettoniche sia i soldi, pompati all’unisono verso un mercato edilizio possente e socialmente cruciale dagli attori pubblici e da quelli privati. Il Banco e la spettacolare arca di cemento cilena parlano entrambi del bisogno di progresso di quei territori, e della convinzione che il progresso andasse raggiunto industrializzando a più non posso, dialogando con le agenzie internazionali, addensando i villaggi in città e occidentalizzando il più possibile le metropoli. Gli scenari politici, molto ben descritti dai curatori, hanno un ruolo centrale nella storia raccontata: la Cuba neocastrista e «non-allineata» che spazia dalle spinte organiche e vernacolari della Scuola delle Arti di Porro con gli italiani Garatti e Gottardi alla corsa alla prefabbricazione sovietica (poi trasmessa al fragile Cile di Allende); i piani che attraversano andirivieni vertiginosi tra democrazia e dittatura (il progetto urbano Previ a Lima, altri casi venezuelani) senza perdere forza e intensità; i grandi progetti brasiliani variamente intrecciati con le vicende politiche del paese, dal riciclo della fabbrica Sesc di Bo Bardi, a Brasilia, al «monopolio» pancomunista di Niemeyer, alle sperimentazioni eroiche di Mendes da Rocha.

Non è facile concepire oggi una mostra storica su un’area geografica così vasta e architettonicamente fertile, siamo tutti ossessionati da progetti molto più angolati e curatoriali, raccolti intorno a temi o addirittura al puro carisma di chi li mette insieme. Ci volevano l’autorevolezza e la solidità del MoMA per dedicarsi a una rassegna così impegnativa. Ha ancora senso? Direi di si perché ci consente di riflettere su alcuni temi molto attuali e di ripensare alcuni cliché architettonici latinos.

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Luis Barragán, Torres de Satélite (1957) a Mexico City

L’architettura che emerge dal percorso espositivo non è infatti la ben nota affermazione di un lecorbusianesimo inclusivo e diffuso né il puro prodotto dell’ardimento ingegneristico che in genere associamo al Sudamerica. È un tessuto molto più complesso, capace di interagire capillarmente con la società e di dialogare proficuamente con classi politiche tutt’altro che tenere. Scopriamo anche che il Sudamerica non è né un blocco omogeneo modernista né un puzzle regionalista, ma un insieme articolato, che relaziona in modi diversi vernacolo e cultura internazionale pur mantenendo una forte identità regionale di fondo.
Dubbi? Certamente ci sono almeno un paio di domande che la mostra lascia aperte.

La prima è la cronologia. Tutto si ferma all’inizio degli anni ottanta, sulla soglia di un trivio difficile tra postmodernisti in fuga verso gli States, città che si trasformano in agglomerati di favelas e progettisti che continuano a lavorare per decenni come se nulla fosse. Il periodo scelto dipende da ragioni intrinseche, dalla necessità da parte dei curatori di individuare una distanza minima necessaria o da un approccio MoMA che separa nettamente passato e presente? La seconda ha a che fare col dispositivo diverso che mette insieme i progetti «per argomento» nella mostra e «per nazione» nel catalogo, anche se è evidente che ci sono alcune storie nazionali – Brasile, Messico, Cuba – che hanno un ruolo che davvero non si può ignorare.

Complessivamente, ci sembra però una grande mostra, che riequilibra i rapporti tra il MoMA e il mondo dell’architettura (dopo le polemiche per la demolizione del Folk Art Museum) e dirige la nostra attenzione verso una scena architettonica tuttora piena di talento, passione e qualità tecnica e di amore per il progetto come mezzo di espressione ed empatia con la società, non interamente sostituibile dalla teoria e dall’ossessione contemporanea per l’evento.