«Il testo di Frampton è molto importante e in fondo davvero poco noto in Italia…» Così Pia Bolognesi e Giulio Bursi, che mi dicono questo – e altro – a proposito della pubblicazione che inaugura un nuovo progetto editoriale da loro lanciato (i due sono entrambi autori e curatori di talento e raffinatezza, nell’ambito dell’immagine audiovisiva e di prassi affini) a sostegno delle iniziative del loro Atelier Impopulaire, o più semplicemente AI (www.atelierimpopulaire.com), formula di un percorso-attività attraverso cui, dal 2012, richiamano in Italia (loro sono di base a Milano) presenze e collaborazioni di valore – da un Aldo Tambellini a un Morgan Fisher, per esempio – secondo un metodo e approccio che definiscono «case by case», nell’ambito dei cosiddetti time-based media, da ciò che si chiama oggi post-performance alla “classica” immagine in movimento. E ora, anche, nella lista dei campi delle “esplorazioni”, si inseriscono visibilmente il testo e la teoria. Sì perché la collana menzionata – dal titolo Split (progetto grafico di Federico Scudeler; stampata da Legno, Milano) – è da intendersi appunto come parte di AI, come tentativo di dare forma fisica alle idee alla base del loro lavoro.

Nello specifico, di cosa si tratta? Di pubblicazioni affini alla natura del libro d’arte, come oggetto di valore, dove anche la scelta della carta caratterizza l’operazione. Dalle loro parole: «Volevamo creare un dialogo visivo su carta, che non dipendesse dalla forma aleatoria della conversazione ma rimandasse piuttosto alla forma saggistica, o ad una composizione più drammaturgicamente dialogica. Avevamo in mente sia i dos-a-dos della poesia d’avanguardia che i tête-bêchedei romanzi di fantascienza dell’editore ACE BOOKS degli anni ’50, ma anche l’idea del 7” split, che fa parte del nostro background, in cui due musicisti condividono ognuno un lato di un disco. Quello che abbiamo voluto creare è un libro che avesse due punti di accesso». In questa loro prima pubblicazione (ordinabile al momento via e-mail, atelier.impopulaire@gmail.com; da fine estate attraverso una distribuzione ufficiale europea e statunitense), i «due musicisti» considerati sono i filmmaker Hollis Frampton e Bruce McClure: un “nome” del cinema (sperimentale) il primo; artista contemporaneo – sempre statunitense – riconosciuto e apprezzato per le sue film performances il secondo. I testi presenti dei due sono in relazione tra loro e quello di McClure – Know Thy Instrument (nella bella traduzione di Filippo Pennacchio) – si può leggere come una sorta di risposta, continuazione e superamento dell’altro, quello di Frampton – A Lecture – testo di accompagnamento e parte integrante di una sua celebre performance avvenuta all’Hunter College di New York nel 1968, testo qui centrale nella logica della pubblicazione, soprattutto per la capacità di toccare, come pochi, il cuore del sistema cine-visivo, la relazione autore-mezzo-immagine: «Comunque, in realtà non ho bisogno di produrre il mio materiale. Una delle principali virtù della mia attività è che mi tiene fuori dai miei film. Ci chiediamo se la cosa non interferisca con la sua ricerca di autoespressione. Se osassimo domandarglielo, probabilmente ci risponderebbe che l’autoespressione lo interessa pochissimo. Egli è più interessato ad indagare le condizioni e i limiti fondamentali della sua arte.» Da qui il passaggio alla dimensione performativa di questa ricerca, come McClure sottolinea nel suo testo e, se si vuole, un passaggio al cinema, per così dire, “filologicamente” d’azione (in azione) – sia chiaro però, non che non si ami il lavoro di un D. Siegel o di una K. Bigelow, è solo che quella azione non è propriamente azione, si dovrebbe definire con altro (una boutade geniale di Carmelo Bene, in dialogo con Enrico Ghezzi: «Come si fa? Il cinema “d’azione”, il cinema di effetti speciali, l’azione… Non è vero. Non è vero. Sono tutti nei ventiquattro fotogrammi al secondo.»)

L’importanza di A Lecture nella ridefinizione di termini chiave del cinema non si riduce comunque alla sola azione. Tocca – anche – un tema correlato, quello del realismo. Si tratta di un campo dove per orientarsi occorrono senza dubbio buone indicazioni, come quelle che per esempio ci offre Rinaldo Censi – altro raffinato studioso di immagini in movimento e no, già firma di questo giornale – grazie al suo Copie originali (Johan&Levi, Milano 2014, 8 euro). Si tratta di una breve indagine sull’essenza del realismo in immagine, cioè l’iperrealismo, tra pittura e cinema, attraverso un percorso in cui ritroviamo, in uno degli snodi cruciali, proprio il testo di Frampton. Si tratta di un libriccino prezioso, che alla fine conduce il lettore a una verità già allusa dal cinema dello statunitense, cioè all’importanza di una riflessione sulla realtà dell’immagine a partire dalla materialità della stessa e dal sistema di relazioni processuali che implica, un qualcosa che secondo Censi si può cogliere nell’iperrealismo come possibile genere e nell’atto della copia come ideale esercizio, ambito e atto capaci di destare – in fondo – l’attenzione verso una realtà in atto, dunque non linguistica, non dicibile, ma che si può comunque vedere e ascoltare, descrivere e registrare, seguire e allontanare: al di là della sequenza oggetto-opera-valore, come fosse un’arte senza arte.