Nel gennaio del 2012 Arthur Danto mi inviò il manoscritto di What Art Is, ora tradotto con il titolo Che cos’è l’arte? (Johan & Levi, pp. 126, euro 16,00) scrivendomi che sarebbe stato pubblicato nell’autunno di quello stesso anno da Yale University Press, e pregandomi di non farlo circolare, perché di certo avrebbe cambiato qualcosa sulla base dei suggerimenti dell’editor e delle letture degli amici. In realtà, nel corso dell’ultimo anno e mezzo di vita Danto ebbe problemi di salute che ne limitarono fortemente la possibilità di lavoro, e rallentarono la pubblicazione del libro. Sebbene Che cos’è l’arte? non aggiunga molte novità al corpus teorico della filosofia di Arthur Danto, va inteso, tuttavia, come una sorta di testamento spirituale, e andrebbe letto insieme a un altro testo, pubblicato qualche mese più tardi, che ne è una sorta di naturale compendio: Intellectual Autobiography of Arthur C. Danto, che costituisce l’introduzione, per mano dell’autore stesso, all’ampia raccolta di saggi critici inclusi nel volume The Philosophy of Arthur C. Danto (Open Court, 2013), pubblicato nella collana The Library of Living Philosophers.
Letti insieme, i due testi consentono di tracciare il profilo umano e scientifico del filosofo americano, la sua visione del mondo, della filosofia e dell’arte che costituiscono un corpus unico: «Come quasi tutto ciò che ho scritto, e di sicuro il meglio di quanto ho scritto, mi è venuto fuori da qualcosa che ho vissuto. Questo è, del resto, il modo in cui ho sempre pensato che la filosofia dovesse comportarsi, e mi ritengo enormemente fortunato per avere vissuto una vita che ha trovato una simile incarnazione filosofica». Tanto nella Autobiografia dalla quale sono tratte queste parole, che in Che cosa è l’arte? Danto chiarisce che si è sempre considerato un filosofo analitico, ma è indubbio – come ha notato Jürgen Habermas – che dalla filosofia continentale ha tratto sia la sua vocazione sistematica, sia la passione per temi di ricerca generalmente poco esplorati dalla filosofia analitica.
Prima di diventare un filosofo e prima ancora di formarsi a questa disciplina alla quale è giunto un po’ per caso, Danto è stato un artista: l’arte è stata non solo la sua passione originaria, ma anche il campo nel quale ha inizialmente creduto di costruire la propria carriera. Ed è proprio la creatività dell’artista che vediamo in opera nella sua filosofia, ciò che gli consente di vedere nessi là dove gli studiosi prima di lui non hanno visto alcunché.
Non furono né il Modernismo, né l’Espressionismo Astratto o le Avanguardie ad appassionarlo: come mostrano i suoi lavori, raccolti nella collezione dal titolo Remaining Spirit, conservati alla Wayne State University e consultabili on line, Danto era un artista tradizionale, e tuttavia, da filosofo, furono proprio le domande poste dall’Espressionismo Astratto e dalle Avanguardie a indurlo a formulare le linee generali per una nuova ontologia dell’arte. Le si trova ribadite e riassunte in Che cos’è l’arte ?, un lavoro che ha il pregio di individuare alcuni punti fermi del pensiero di Danto, sottraendoli a ogni forzatura ermeneutica.
Proverò a illustrarli, partendo dalla formulazione del problema filosofico: «Questo pensiero mi venne all’improvviso un giorno in cui avevo un appuntamento con un gruppo di studenti per un seminario informale a Berkeley. Entrando nell’edificio, passai accanto a una grande aula con degli imbianchini al lavoro; c’erano scale, stracci, secchi di vernice e acqua ragia, pennelli e rulli. Pensai subito: e se si trattasse di una installazione dal titolo Imbiancare? La coppia di artisti elvetici Fischli e Weiss realizzarono in effetti una installazione nella vetrina di un negozio, al centro di una città svizzera, forse Zurigo, fatta proprio di scale, bidoni di vernice, stracci macchiati di colore e simili. Chi conosceva gli artisti andò a vedere la vetrina come prodotto culturale; ma che interesse avrebbe avuto per gli amanti dell’arte se fosse stata, invece che arte, un semplice lavoro di imbiancatura?»
Come distinguere le mere cose dalle opere d’arte, posto che, in alcuni casi, le opere d’arte esibiscono le medesime proprietà – almeno dal punto di vista percettivo – delle mere cose?
Oppure, come distinguere opere d’arte identiche sotto il profilo percettivo, ma diverse dal punto di vista artistico? Queste domande, che Danto traduce teoricamente nella questione dell’identità degli indiscernibili, lo convincono a porre il problema della definizione del concetto di arte. Da epistemologo, aveva già ragionato sulla questione in un testo del 1973, Analytical Philosophy of Action e ancora, nel 1990, in Connections to the World, dove a incuriosirlo era stata una coppia di indiscernibili individuati da Descartes: la veglia e il sogno che, non a caso, ritornano nel capitolo iniziale di Cosa è arte.
L’idea di Danto non è semplicemente che ogni cosa può essere arte, bensì che qualora si diano determinate condizioni ogni cosa può essere arte. Alla filosofia spetta il compito di individuare tali condizioni, muovendosi in una direzione che deve essere opposta rispetto a quella percorsa dai teorici dell’arte di scuola wittegensteiniana, i quali avevano ritenuto impossibile definire l’arte.
Per parte sua, come sottolinea chiaramente in Che cosa è l’arte?, Danto è al tempo stesso convinto di avere individuato alcune di queste condizioni, ma che il lavoro filosofico non sia concluso. È questa la ragione per la quale decide di non formulare una definizione compiuta, ovvero di non fornire condizioni necessarie e sufficienti. Quelle che Danto individua sono fondamentalmente tre: (1) l’idea che l’opera d’arte sia un oggetto creato per significare qualcosa, (2) l’idea che il significato richiede un corpo, perciò le opere d’arte sono significati che prendono corpo. Infine, (3) l’idea che la buona lettura di una opera richiede un corpus di conoscenze storiche e teoriche che permettono di comprenderla a partire dal contesto culturale che l’ha resa possibile.
Mentre lo sviluppo delle prime due condizioni è lavoro eminentemente filosofico – in particolare si tratterà di svolgere un concetto di rappresentazione che preveda una applicazione specifica alle opere d’arte e una riflessione sulle caratteristiche dei medium artistici, ovvero dei corpi che incorporano le rappresentazioni significanti – la terza condizione è quella che Danto ha previsto per il lavoro della critica d’arte. Per dare l’idea di quale sia la forza esplicativa di queste tre condizioni, possiamo formulare un esprimente mentale che chiameremo la galleria delle Brillo Box.
Poniamo che una galleria d’arte alla moda esponga quattro Brillo Box, tutte indiscernibili. La prima realizzata dal designer americano James Harvey, s’intitola scatola di detersivo. Il titolo è realistico: attraverso la Brillo disegnata da Harvey una azienda commercializza il proprio detersivo. La seconda Brillo Box, indistinguibile dalla prima, s’intitola Brillo Box, ed è un’opera di Andy Warhol.
Il gallerista che ha organizzato l’esposizione ama evidenziare i legami tra l’arte e la filosofia. Per questo, proprio accanto alle numerose Brillo Box di Warhol, impilate quasi fossero scatole in un emporio, espone altre Brillo Box, indistinguibili dalle prime due. Sono le Brill Box che l’artista Mike Bidlo ha intitolato Not Warhol. Non solo le Brillo di Bidlo sono indiscernibili da quelle di Harvey e di Warhol, ma la stessa disposizione della sua opera è indistinguibile da quella dell’opera di Warhol. Infine, da ultimo, abbiamo le Brillo Box commissionate da Pontus Hultén, direttore del Moderna Museet di Stoccolma: 110 esemplari, firmati «Andy Warhol» e intitolati Brillo Box, che vediamo accatastati proprio accanto a quelli di Mike Bidlo.
La domanda è dunque questa: i quattro esemplari di Brillo Box indiscernibili, sono tutti opere d’arte? E, se lo sono, sono la stessa opera d’arte? La teoria di Danto ci permette di rispondere che le prime tre sono opere d’arte (Harvey, Warhol e Bidlo), mentre la quarta, le 110 scatole commissionate da Pontus Hultén, è una mera riproduzione, pur essendo identica alle altre. Inoltre, ci permette di osservare che le tre opere sono diverse, non soltanto perché sono state create da artisti diversi, ma perché i contenuti semantici di cui sono portatori non sono gli stessi, pure essendo veicolati da «corpi» che mostrano le stesse, identiche, proprietà estetiche. La Brillo disegnata da Harvey dice molte cose riguardo alla forza pulente delle spugnette che contiene: è quella che definiremmo arte commerciale. Quella di Warhol dice moltissime cose a proposito della società che ha magnificato il mercato e il consumismo. Le Brillo di Bidlo ci parlano delle opere d’arte di Warhol e individuano la potenza del problema filosofico che sollevano. Infine, le Brillo di Pontus Hultén non sono a proposito di nulla: non c’era alcun pensiero artistico all’origine della loro realizzazione.
Senza la potenza di una teoria che la spieghi e di un occhio che sia educato a coglierla – questo il senso della storia raccontata da Danto – tutta l’arte rimane muta, che è poi quanto accade a un’equazione vista da un occhio incapace di decifrare la matematica.