Lo spazio è quello minuscolo di una cantina, non c’è pedana ma un tavolo accerchiato dagli spettatori, giovani e sistemati per terra: il ragazzo che legge seduto a quel tavolo ha i capelli scuri, gli occhiali con le lenti fumées, la giacca di velluto e un foulard che gli sbuffa sulle pagine del libro, la sua serata ha un titolo assiderante, Sodoma ad Auschwitz, ed è la prima di un ciclo, al Beat 72 di Roma, destinato a fare epoca. La ricorda in presa diretta nel Poeta postumo (1978, poi da Le Lettere 2008, nella riedizione a cura di Stefano Chiodi) lo scrittore Franco Cordelli che lì ha invitato il ragazzo, un poeta poco più che trentenne: «Aspettavamo Bellezza: cos’era quella aspettativa se non un tentativo di socializzare il punto di vista della minoranza? \[…\] Bellezza, l’unico scrittore degli anni settanta che sappia maneggiare il sublime senza sporcarsi le mani».
Questa è una notazione penetrante perché coglie alla stregua di una postura primordiale (una segreta ironia, un distacco glaciale non proprio immaginabile) l’etimo psicologico di una poesia che, nel deserto allora procurato dalla neoavanguardia, osava esibire le stimmate più risapute della decadenza, la vita più peccaminosa e sbandata, orgogliosamente piagata, con tutti gli effetti di ritorno di un maledettismo così anacronistico, se ricevuto in superficie, da lasciare sgomenti ovvero nel sospetto di trovarsi di fronte a un epigono. Lo stesso Pier Paolo Pasolini, che aveva firmato nel 1971 il risvolto di Invettive e licenze, il volume d’esordio di Dario Bellezza, si era soffermato a coglierne i moduli ossessivi (evocando a proposito di angosce e, anzi, delle anafore di mali assoluti, le bottiglie e i vasi di Morandi) che vedeva versati in stampi metrici sempre al limite della volatilità o di una vera e propria, persino sdata, casualità: «Anche la durata delle sue poesie è casuale, come pezzi di articoli di giornale ritagliati da una forbice che ha il potere di isolarli e sospenderli contro il vuoto di un infinito atroce». E atroce era il set cui essi rinviavano, cioè incontri fortuiti e corrotti, corpi e volti di giovanissimi prostituti, anonimi e defigurati in interni a loro volta derelitti e claustrofobici, sotto squarci notturni senza luna né stelle, dove il sesso non poteva dirsi goduto e nemmeno desiderato ma, semmai, rimpianto a priori, sempre casualmente sprecato e perciò continuamente rimpianto nel suo fantasma assillante e deficitario. Tali sono i referenti di una poesia che, tra l’esordio di Invettive e licenze e il libro baricentrico, io (1983), si fissa in stereotipo sia per la leggenda di continuo alimentata dal poeta in persona sia per la sopravvenuta complicità di lettori eccellenti, spesso suoi intimi o comunque compagni di via, da Alberto Moravia e Enzo Siciliano a Renzo Paris ed Elio Pecora, non escluso, da lontano, un rilievo illustrissimo di Gianfranco Contini che (nello Schedario degli scrittori italiani, 1978) dice di un eros alcibiadeo «destituito di quei momenti di voluttà elegiaca che pure allignano in Penna e anche in Pasolini, arida e abbietta necessità capace solo delle fiamme e calcinazioni di Sodoma». Ma neanche Contini può ancora conoscere il prosieguo della vicenda che dalla raccolta intitolata io, per complessive sette sezioni, passa da Serpenta (1987) a Libro di poesia (1990) e culmina in Proclama sul fascino, un libro immediatamente postumo alla morte di Dario Bellezza, spentosi a Roma il 31 marzo del ’96.
Ora, la figura di un autore che ebbe fama ma fu soltanto parzialmente, e inevitabilmente, inteso in vita sua viene riproposta in Tutte le poesie (Mondadori «Oscar», pp. XXXIII + 767,euro 20,00) a cura di un poeta, Roberto Deidier, che è anche un critico raffinato. Va detto subito che l’edizione è impeccabile sotto il punto di vista filologico e annette ai testi editi, secondo l’ultima lezione a stampa, una cospicua sezione di inediti o rari e dispersi puntualmente annotati e contestualizzati in apparato. Tuttavia, essenziale alla rilettura meditata di un’opera tutt’altro che lineare nelle sue interne dinamiche è il saggio introduttivo che si intitola, prendendo a insegna un verso-chiave del poeta, ‘La fine dell’amore dopo l’amore’. Ciò che Cordelli aveva intuito la sera del Beat 72, dunque un ritrarsi nell’atto stesso dell’esibirsi, il non sporcarsi le mani, la necessaria malafede di chi intanto si sta sovraesponendo, quasi un impensabile riserbo brechtiano, ora Deidier lo deduce nel senso di una drammaturgia poetica scandita, a far perno sulla raccolta io, in due scene primarie ma di segno opposto e complementare. Ne sono attori il corpo e la parola, dentro uno spazio ora costipato ora invece denudato su cui incombe, spettro di un coro perpetuamente a bocca chiusa, la morte che è nuda sottrazione dell’essere al mondo.
La prima scena è quella notoria per i contemporanei di Bellezza, la cui poesia, scrive Deidier, si manifesta quale «proiezione dell’io lirico come protagonista del teatro della passione erotica, l’amletica rappresentazione di sé tra retaggio cattolico, abito piccolo-borghese, trasgressione». Qui, insomma, il corpo occupa la scena e libera a oltranza una pulsione che in realtà è una ossessione frustrata di possesso, mentre la parola che se ne fa tramite allude o occhieggia alla morte redentrice, presumendo di esorcizzarla. Così, ad apertura di pagina, da Invettive e licenze: «Le illogiche parole dell’amante / che tu non capisci e vai di notte / a cercare un nuovo letto, un // nuovo sesso da rendere infelice. // Ma perché rimani freddo. Non ti / scaldi mai!».
A partire dagli anni ottanta, la scena rimane sì inalterata ma vi mutano ruoli e funzioni, perché tiene il campo una parola divenuta nostalgica del corpo e delle sue ossessioni ed essa vibra da una lontananza (ricordo, memoria, spasimo per quanto fu presente e ormai è dissolto), da una distanza tanto incolmabile da suggerire a Deidier l’immagine di un poeta petrarchista, del firmatario di straziate elegie, il malato terminale che detta le sue ultime epigrafi a un amico (quelle, per esempio, che si contengono nel memoriale di Maurizio Gregorini, Morte di Bellezza. Storia di una verità nascosta, Castelvecchi 1997, o quelle di riflesso suggerite a Renzo Paris per uno dei suoi libri più belli, Ragazzi a vita, Marcos y Marcos 1997). Ma Dario Bellezza aveva immaginato l’esito della propria parabola nel libro in cui precipita la sua giovinezza, Morte segreta, e nella lirica che gli dà il titolo, stupenda: «Ora alla fine della tregua / tutto s’è adempiuto; vecchiaia / chiama morte e so che gioventù / è un lontano ricordo. Così / senza speranza di sapere mai / cosa stato sarei più che poeta / se non m’avesse tanta morte / dentro occluso e divorato, da me / prendo infernale commiato». La lesse una sera d’estate del 1976, sul palco del «Viareggio», quando lo premiarono e in tv apparve scuro, gonfio di Tavor, la barba di tre giorni, gli occhiali incredibilmente neri: la lesse tremando, accentuando i sovratoni di una voce peraltro inconfondibile mentre davanti al microfono egli non si muoveva, rigido, assente. E dopo avere letto non disse nemmeno una parola. Sembrava un ragazzo di colpo invecchiato o qualcuno che fosse molto più anziano dell’uomo di trentatre anni che sei mesi dopo, solamente, avrebbe letto i versi di Sodoma ad Auschwitz nella cantina del Beat 72.