David Chase (David DeCesare), il leggendario autore della pluripremiata serie tv I Soprano è a Venezia in qualità di giurato della sezione Orizzonti. Nel 2012 ha realizzato un suo film, Not Fade Away, sul rapporto tra un giovane musicista rock (John Magaro) e il padre (interpretato dal «suo» James Gandolfini); attualmente sta lavorando a una miniserie HBO, A Ribbon of Dreams, sulla storia del cinema muto americano. Minuto, quasi fragile, vestito di un grigio che richiama il cielo del Lido, insopportabilmente autunnale, Chase si racconta.
«È la prima volta al festival ma a Venezia ci sono stato molte volte, in passato. Mi interessa l’Italia. Tutti i miei quattro nonni erano italiani. Era una tipica famiglia italiana in America. L’unico diverso era mio nonno materno, Vito Bucco. Lui non era cattolico, ma protestante, o meglio, era socialista e ateo, ma la sorella di mia madre ha deciso di trovarsi una chiesa vicino a casa, che era la chiesa battista, dove mia madre ha incontrato poi mio padre. Mio nonno aveva studiato alle superiori; lo chiamavano dottore, leggeva il giornale, frequentava le riunioni del partito, ma spendeva più soldi per queste cose che per la famiglia.

Il cibo è un aspetto chiave della cultura italoamericana, un segno della sua non assimilazione, e ha una parte importantissima nei Soprano. Anche nella sua famiglia?
Io adoro il cibo italiano. Quando andavo a mangiare dai miei amici, magari polacchi, dentro di me pensavo proprio a quanto ero stato fortunato a nascere italiano.
Nel cinema italoamericano contemporaneo la famiglia ha un ruolo centrale, anche se spesso è disfunzionale, come in «Buffalo 66» di Vincent Gallo, o in «Mosche da bar» di Buscemi...
Qualsiasi famiglia americana è disfunzionale. Quella dei Soprano è una famiglia ideale in apparenza: padre, madre e un figlio maschio, una figlia femmina, ma pensiamo che metà delle coppie americane dell’età di Tony e Carmela sarebbero già stati divorziati. Vivono nel New Jersey (dove è cresciuto Chase) perché statisticamente è lo stato in cui risiedono più italoamericani. vivono lì ricordando la madrepatria, che nel frattempo è cambiata. Ma i Soprano sono una famiglia di fuorilegge; è Carmela che vorrebbe integrarsi, far studiare i figli; è quella che accetterebbe l’assimilazione.
Il cast della serie è davvero eccezionale. Come ha scelto questi attori?
Il casting è il momento più duro. Vedi centinaia di persone e cominci a pensare che quello che hai scritto non funziona se nessuno riesce a recitarlo come vorresti tu, e poi, tac, un giorno arriva uno ed è perfetto per la parte. Con Gandolfini era tutto molto difficile. Anche quando ha fatto la prima audizione se ne è andato a metà; quando cominciava a girare un film o una cosa, il primo giorno non arrivava sul set. Era fatto così: non era mai sicuro, gli sembrava di non essere abbastanza bravo.
Il casting di Little Steven, ovvero Steven Van Zandt della E Street Band, è legato ai suoi trascorsi musicali (Chase da giovane è stato batterista)? Bruce Springsteen e la Band del resto sono in gran parte italoamericani del New Jersey…
Sono sempre stato un grande appassionato di Springsteen, ma non sapevo che era di origini italiane; magari lo percepivo. Guardavo le copertine degli LP e mi sembrava che Little Steven avesse una faccia interessante, poi quando ha lasciato la Band per incidere da solo, con quella bandana e l’aria da pirata, mi pareva un Al Pacino giovane. Quando poi l’ho visto in televisione mentre introduceva i Rascals, una band in cui tre dei componenti erano italiani, nella Hall of Fame, era così autorevole che ho deciso che era perfetto per i Soprano e ho tirato fuori un ruolo per lui.

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Nancy Marchand, che ha il ruolo della perfida madre di Tony Soprano, Livia, era stata interprete in teatro di Marty, a sua volta incentrato sulla comunità italoamericana.
Sì ma lei non era italoamericana. Avevamo fatto 150 audizioni per quel ruolo ma tutte le attrici si mettevano a fare la donna italiana pazza (e gesticola vistosamente) mentre io avevo in mente mia madre. Quando Nancy provò è stato proprio come vedere mia madre; anche i parenti si sono impressionati: sembra proprio lei!
La serie gioca in un modo sofisticato tra stereotipo e personaggio…
Certo, perché spesso lo stereotipo è reale. Mai visto quanti uomini grassi, col pancione come Tony Soprano, girano per i quartieri italoamericani?
Questa sintesi può essere pericolosa, però, basti pensare ai film americani di oggi…
Ma in questo cinema non ci sono più veri personaggi, né racconto: sono giocattoli e fumetti.
La peculiarità dei Soprano, che ora è diventata un carattere tipico delle serie tv, è la coesistenza di più registri, in particolare dell’Ironia, della metacomunicazione, del distacco, e dall’altra parte dell’identificazione e del naturalismo psicologico.
Io volevo che i Soprano funzionassero come una satira, ma se scrivi bene, i personaggi devono essere a tutto tondo.
Lei usa il lettino dello psicanalisti per raccontare Tony Soprano
Nella comunità italiana la psicanalisi è rifiutata; come dice Livia nei Soprano «è un racket degli ebrei» ma io ho fatto analisi per diversi anni e la mia analista era una donna; su di lei ho costruito il personaggio della dottoressa Melfi.
Nel suo film qui a Venezia, «She’s Funny That Way», Bogdanovich ha «firmato» i titoli di coda proprio con un cameo in cui lo si vede mentre interpreta il supervisore analitico della dottoressa Melfi nei Soprano; come mai lei aveva scelto questo collega regista per quel ruolo?
C’eravamo conosciuti mentre lavoravo per la serie Northern Exposure; gli avevo chiesto di interpretare un personaggio perché in quella puntata si parlava di genialità e lui è un esperto di Orson Welles. E dopo mi sembrava perfetto per questa parte; lui l’ha fatta volentieri. Ha anche diretto un episodio.
Anche Buscemi, oltre a interpretare un personaggio importante come il cugino di Tony, ha diretto due episodi della serie e vinto persino l’Emmy.
Avevo visto Mosche da bar e lo avevo molto amato. L’ho chiamato come attore proprio per quello e poi è venuto da sé fargli girare degli episodi.
Il titolo della serie è un richiamo al suo amore per la musica, che la serie utilizza peraltro in modo davvero innovativo?
No, era il cognome di un mio compagno di scuola al liceo. Mi era sempre piaciuto, ma l’HBO era perplessa perché diceva che con quel titolo tutti avrebbero pensato che si trattava di opera. Ma a me la cosa non dispiaceva…
Secondo lei perché la serie, che ha avuto un successo così clamoroso (e in un certo senso insuperato) in America non ha avuto molto successo in Italia?
Mi hanno detto perché qui si pensa che non ci sia niente di divertente nella mafia. Forse è stato anche per l’ora molto tarda in cui veniva trasmessa. Forse non volevano che la gente la vedesse, perché, come si evince dai film qui a Venezia, la mafia è ancora qui ed è ovunque; il paese è uno dei più corrotti del mondo occidentale…Anche l’America non scherza, da questo punto di vista. Comunque a me è piaciuto molto Belluscone, il film di Maresco.