Aveva 106 anni Manoel de Oliveira, eppure sembrava impossibile che potesse morire. Adesso che è accaduto, che è morto, che è «vero» si fa fatica a crederlo. Diceva (in Lisbon Story):«L’unica cosa vera è la memoria, ma la memoria è un’invenzione. La macchina da presa può fissare un momento, ma quel momento è già passato. In fondo quello che fa il cinema è far rivivere il fantasma di quel momento, ma abbiamo la certezza che quel momento sia esistito fuori della pellicola?».

Come nel suo magnifico film di qualche anno fa, Lo strano caso di Angelica, dove solo il fotografo coglie l’impercettibile sorriso della ragazza morta a cui deve fare il ritratto, ci si aspetta che anche de Oliveira sorrida da qualche parte, sul bordo di un pellicola, di un’immagine lunga un secolo (quasi quella del cinema). E lo spazio del cinema, del suo cinema è questa inquadratura di epifanie inattese, ricerca di un’illuminazione, di un assoluto violento perché riprendere è un gesto che ha in sé questa violenza, significa guardare dentro alla vita e alla morte.

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Significa disseminare tracce e cercarne sempre diverse. «Se mi si toglie la possibilità di fare film io muoio» aveva «minacciato» in occasione del suo centesimo compleanno. Questo suo essere «il cinema» e molto altro è ciò che lo rende una figura gigantesca, soltanto pensare alla sua opera si rimane intimiditi, e certo non bastano poche righe per raccontare la complessa statura intellettuale che è il segno estetico e temporale della sua vita. Negli ultimi tempi i film di de Oliveira ci erano un po’ mancati. Non era semplice produrli considerata l’età (in Portogallo si diceva che per vezzo aumentasse i suoi anni), faceva meravigliosi corti – Il vecchio del Restelo, che è diventato l’ultimo lo abbiamo visto alla scorsa Mostra di Venezia.

Niente di strano nemmeno qui, per i grandi registi cambiare è indispensabile – come è cambiato Straub o anche Godard. De Oliveira poi lo teorizzava: «Il cinema è come la vita, non può ristagnare». E lui fedele alle sue ossessioni continuava con genio e tenacia a sorprendere soprattutto sé stesso. Era un signore di altri tempi. Arguto, ironico, pudicamente perverso, amante del femminile, e tra le tante linee possibili la sua è una poetica di donne. Magnifiche come le attrici che le incarnavano, icone come Leonor Silveira senza dimenticare l’amatissima scrittrice, ispirazione di tanti suoi film, Augustina Bessa Luis.

Sono le epifanie del suo grandioso barocco, i segni di una forma ineffabile, misteriosa, in cui si dipana la materia del mondo (e dell’immaginario): emozioni,pensieri, ambiguità, conflitto. «Le donne vogliono il cielo, gli uomini il focolare» si dice in Party (’96). E ne sono la prova Leonor Silveira in quella lettura folgorante di Madame Bovary che è Vale Abrao, Catherine Deneuve in Il convento o Chiara Mastroianni in A carta. L’immagine dei suoi film è liquida e solida, si manifesta nella durata e nella velocità con cui scompagina lo spazio dell’inquadratura, in quella dimenticanza «provvisoria», è «un corpo che si ricompone organo per organo» (Daney), che permette a ciascuna figura di declinare la sua identità.

Douro, faina fluvial (1931), il suo primo film dedicato alla città di Porto è un poema d’avanguardia che rimanda a Walter Ruttmann e Dziga Vertov, lo straordinario Anika Bobo, (1942), in cui nella storia dei due ragazzi innamorati della stessa ragazzina già balena uno dei suoi motivi privilegiati, la rivalità amorosa, esprimono già una libertà singolare, una danza di chiaroscuri, e una metafisica teatralità. Ma ballare a de Oliveira piaceva come il buon vino, questo «giovane vecchio lusitano» – come lo chiamano da qualche parte – sapeva essere maliziosamente irresistibile. Insieme a lui c’era sempre la moglie (a proposito di donne) discreta, divertita, impeccabile con la pettinatura e i vestiti elegantissimi d’altri tempi, presenza silenziosa di una speciale complicità.

Nel mondo de Oliveira rappresenta anche l’essenza del cinema portoghese, Atto di primavera (’63), la Passione di Cristo interpretata dai contadini, coinvolge due figure chiave del Cinema Novo portoghese come Antonio Reis e Paulo Rocha, maestri riconosciuti per le generazioni a venire, da Pedro Costa a Miguel Gomes a Joao Pedro Rodrigues anche nella loro totale diversità di segno. Forse perché in ogni film di de Oliveira scorre sempre prepotente il suo tempo, disseminato in un’universalità atemporale come quella delle grandi opere dell’umanità, i miti e le narrazioni che si fanno coscienza collettiva. E nella vertigine della lingua, nei lunghi brani di prosa che scivolano frase dopo frase lungo i fotogrammi. Manoel Candido Pinto de Oliveira era nato l’11 dicembre del 1908 a Porto, figlio della borghesia portoghese, cresciuto dai gesuiti, pilota di rally, attore, imprenditore, vinicultore.

Tutto ciò lo porta al cinema – e ne diviene parte – che inizia al tempo del muto per arrivare nell’era del digitale, attraversando le guerre, la dittatura di Salazar, gli ostacoli se si pensa che il suo capolavoro Amor de perdiçao in Portogallo venne massacrato, e fu solo dopo i riconoscimenti all’estero che de Oliveira cominciò a essere considerato. Era troppo sconvolgente il modo in cui il romanticismo di Camilo Castelo Branco, fonte del film, veniva disorientato dalla recitazione, da quel barocco di continui punti di fuga. L’anno dopo sarà quello di Francisca (’79) e dell’incontro con Paulo Branco suo produttore per 25 anni. Nel tempo de Oliveira dà voce a riflessioni sul crepuscolo dell’impero e sull’inutilità della guerra, (No, o la folle gloria del comando), sulla malinconia del mondo sensibile (Vale Abrao, La valle del peccato ’93), sulla «tenerezza mortale per tutto ciò che è vivo» (Inquietude,’98), sulla relazione di odio e desiderio del teatro e del cinema, una continua oscillazione tra la scena e il sogno, tra i corpi concreti e i fantasmi delle glorie (Le Soulier de satin, Je rentre à la maison). Nel suo cinema il mondo come è non esiste.

La sua verità si manifesta nella sua messinscena, nell’arte e insieme nello stravolgimento delel sue gerarchie, in quello che impone la regola sociale e culturale. L’opera di de Oliveira si confronta coi l’intera civiltà occidentale e coi suoi paradossi, come in Il quinto impero (2004) in cui attualizza senza mai scivolare nel realismo gli opposti estremismi di cristiani e islamici. É parola e utopia, è la Bibbia e Dostoïevski, Omero e Flaubert, teatro, pittura, Storia, racconto orale e cultura popolare. In questa rappresentazione vive il sentimento della precarietà umana, l’alterità come condizione segreta dell’uomo, e luogo della bellezza del mondo. Che le sue immagini esplorano oltre l’orizzonte, su questo bordo di catastrofi e di apocalissi. L’inizio e la fine del mondo, la nascita e la morte, il mistero dell’esistenza e la possibilità di ricrearla. Il rito imprevisto del cinema.