Intervistare Jeremy Xido è un’impresa. Il regista originario di Detroit, che è anche attore e danzatore, sta facendo la spola tra Stati Uniti e Mongolia per lavorare al suo nuovo film. Riusciamo finalmente a contattarlo in una sua sosta a New York, città in cui ora vive. Vorremmo parlare di Death Metal Angola, il documentario che lo ha reso famoso, presentato da poco a Torino. Il film risale in realtà al 2012 ma «sono convinto che abbia un qualche potere di restare, di continuare a dire qualcosa per una decina d’anni almeno». La forza di Death Metal Angola, un film nato quasi per caso, sta nella visione onesta e del tutto inaspettata che offre, oltre che nel significato anche sociale di un genere musicale che era difficile immaginare fosse conosciuto e suonato da quelle parti. «Ero in Angola a lavorare su un’altra cosa» racconta Xido, «volevo fare un film sui lavoratori cinesi che stavano ricostruendo la linea ferroviaria che da Benguela porta al confine con il Congo. La linea si fermava in questa città, Huambo, e non andava oltre. Cercavo un paio di caffè, andai nell’unico posto che trovai, si chiamava The Imperial. Mentre ero lì vidi entrare questo ragazzo, Wilker, con i dreadlock e una camicia blu, che cominciò a parlare con me. Mi chiese cosa facessi lì. Gli dissi che ero un regista e allora mi raccontò di essere un musicista e di suonare death metal. Rimasi sorpreso. “Passa all’orfanotrofio stasera, suonerò lì”. All’inizio pensai che questo fosse il nome di un club. Arrivai lì con alcuni lavoratori delle ferrovie cinesi. Ci ritrovammo a Okutiuka (il nome di un vero orfanotrofio), nel mezzo della notte. Wilker stava rubando l’elettricità ai suoi vicini per attaccare l’amplificatore, ma non ce n’era abbastanza anche per il microfono. Wilker allora si mise a cantare al buio in mezzo al cortile, illuminato solamente dai fari delle auto con cui eravamo venuti, circondato da bambini. Non avevamo davvero idea di cosa stesse succedendo. È così che ho scoperto l’esistenza del death metal in Angola».
Decidendo che era la storia perfetta per un film…: «In realtà no. Stavo ancora pensando all’altro film. Dopo un anno sono riuscito ad avere abbastanza soldi per tornare e ho chiamato Wilker, per sapere come stesse. Mi disse: “Jeremy, stiamo organizzando il primo concerto rock nazionale dell’Angola. E tu lo filmerai”. Non ero convinto che sarebbe stato un vero film, pensavo più a un cortometraggio magari. Mentre ero lì però ho capito che le implicazioni di quello che stavo facendo erano molto più profonde di quello che mi sarei aspettato e quindi mi sono messo a lavorare su un film completo».
Dall’idea di Wilker e di Sonia, la sua ragazza nonché colei che gestisce l’orfanotrofio di Okutiuka, si mette in moto un gruppo di persone capace di radunare in poco tempo moltissimi gruppi provenienti da tutto il paese. Huambo, che è sperduta nell’Angola interiore, non ha le strutture e la quantità di gruppi che hanno le grandi città sulla costa come Benguela o la capitale Luanda. Però molti gruppi di qui decidono di partecipare, band che hanno nomi come Before Crush, Black Soul, Mental Grave, Dor Fantasma, Instinto Primario, Nothing 2 Lose. L’immaginario è lo stesso di chi ha passato la propria adolescenza ascoltando Slayer e Cannibal Corpse. Ma qui c’è qualcosa di straniante, e al contempo di inspiegabilmente familiare, un elemento di comunanza cui solo la musica riesce a dare forma. Non c’è solo l’inaspettata scena musicale che caratterizza questo angolo d’Africa (ma qualcuno nel film nota che «in fondo il metal e il rock vengono dal blues, quindi questa è black music a tutti gli effetti»). L’aggressività della musica, i testi che parlano di morte, di distruzione, di violenza, assumono tutto un altro senso in questo posto straziato da quasi trent’anni di guerra civile. Molti di questi ragazzi quand’erano bambini hanno conosciuto il terrore dei bombardamenti, hanno visto i propri familiari e conoscenti morire. Suonare death metal diventa un modo per esorcizzare i fantasmi di quelle sofferenze. Un tipo di musica così estrema assume una legittimità nuova, «queste persone – prosegue Xido – possono raccontare la propria storia come se fossero narrazioni mitologiche, raccontano le esperienze vissute riguardanti la perdita delle proprie famiglie, o i traumi che hanno subito. La musica qui trasmette un enorme senso di liberazione, permette di esprimere delle cose che non si possono esprimere in altri modi. È un tipo di musica per molti versi inaccettabile per la società, troppo estrema. E quindi può affrontare anche argomenti inaccettabili, indicibili».
La zona di Huambo, anche per la sua posizione strategica, fu contesa tra le varie fazioni in guerra e dunque caratterizzata da scontri durissimi, durati per molti anni. Una delle conseguenze di ciò è la presenza di tantissimi orfani, rimasti soli dopo la scomparsa dei genitori. Il film di fatto è ambientato all’interno dell’orfanotrofio di Okutiuka, in cui emerge la figura di Sonia, che lo gestisce. Il suo ruolo è fondamentale anche nel film, essendo il punto di riferimento centrale grazie a cui accadono le cose. «Sonia è la storia, in realtà» spiega Jeremy, «il senso del film ha a che fare con lei. Sonia è molto appassionata di musica rock, del potere che questa ha avuto nella sua vita, poiché le ha permesso di sopravvivere a livello psicologico durante il periodo della guerra. Ma Sonia è anche una visionaria e una combattente. La sua dedizione all’Angola, al suo paese e alla sua gente, a quelle persone in assoluto più vulnerabili che sono i bambini e i ragazzi orfani, è impareggiabile. Sonia è forse la personalità più notevole che io abbia mai incontrato. Ma figure come Sonia esistono in tutti i posti del mondo dopo una guerra. Lei è quella che, grazie al suo temperamento, grazie alle sue capacità, è in grado di concepire una ricostruzione, e ciò è parte del suo potere. Ho fatto degli studi sul ruolo delle donne nelle società in periodi successivi alla guerra. Sono loro quelle in grado di stabilire e mantenere una rete di relazioni tra le persone, solo loro a ricostruire una società».
Il rapporto che Jeremy Xido ha instaurato con l’Angola è molto profondo, esplorato in parte anche grazie a un altro lavoro, la pièce teatrale The Angola Project (che è più autobiografico, e collega un dramma come quello dell’Angola alla crisi irreversibile della città di Detroit, e alla perdita totale di punti di riferimento). Quando ne parla tuttavia Jeremy è preso da una sorta di rammarico, un senso di impotenza. «La mia esperienza in Angola» riflette, «è stata molto complessa ed è una parte molto importante della mia vita. Sono legato in modo molto forte a Sonia e Wilker in particolare. Sono contento di esser riuscito a tirare fuori almeno in parte quello che ho vissuto lì. Il film ha avuto molto successo per essere un documentario, ha girato qualcosa come una novantina di festival. Al contempo però c’è un elemento di frustrazione. Mentre il film girava il mondo, in Angola non veniva proiettato né in tv né al cinema. Soprattutto, sento che verso queste persone che amo, cui tengo tantissimo, il film non ha cambiato nulla rispetto alle cose contro cui devono combattere ogni giorno. Mi sento come se non avessi ottenuto tutto quello che avrei potuto, facendo questo lavoro».