Mentre nel dibattito pubblico (soprattutto televisivo) il tema del debito sembra essersi inabissato, sulle pagine economiche continua a spuntare fuori – non sembre con grande chiarezza. Fra i titoli più recenti: Cala il debito pubblico ma la crescita rimane modesta; Italia, Fmi: il debito salirà ancora; Perché il debito pubblico continua a crescere; Eurozona, cala debito pubblico. Ottobre a quanto pare dà segnali un po’ divergenti… Ma al di là della contraddittorietà colpisce una impostazione rigidamente numerica, ragionieristica: importante è stabilire se aumenta o diminuisce e di quanto. E si parla solo di debito pubblico, cioè dello Stato.

Già diversi rapporti di indiscutibile autorevolezza e ampiezza danno una visione più profonda e organica dei problemi, oltre che testimoniare come il tema abbia la pesantezza di un macigno. A questi si aggiunge ad inizio ottobre il Fiscal Monitor del Fondo Monetario. Si tratta di una pubblicazione bimestrale da parte di una istituzione non particolarmente propensa al marxismo. Questo per prima cosa ci ricorda come i problemi che giunsero alla ribalta solo pochi anni fa non sono scomparsi (e la strategia dello struzzo non è quasi mai consigliabile). Il debito globale (sommando quelli pubblici, e private, quindi famiglie e imprese non finanziarie) arriva al 225% rispetto al PIL mondiale per la cifra di 152 trilioni (1 trilione= 1000 miliardi).
Circa 100 trilioni sono debito privato, circa 2/3 del totale. Va ricordato che tale cifra esclude le compagnie finanziarie, quindi non comprende la mastodontica quantità di finanza che sopravanza di molte volte il Pil mondiale.

Posto il fatto che il debito pubblico non è preponderante quantitativamente, scopriamo che non è nemmeno il principale problema. Con termini assai cauti ma facendo riferimento ad una salda base analitica, si dice abbastanza chiaramente che in relazione alla possibilità di crisi finanziarie il debito privato è più nocivo e pericoloso “anche se un alto debito pubblico non è esente da rischi”. In particolare avere un indebitamrnto alto dà minore spazio di azione agli Stati.

La correlazione fra debito privato e pubblico è uno dei punti principali affrontati. Tanto che in relazione ad esso si estende la base di dati a 113 economie, comprendenti anche paesi non avanzati ed emergenti. Riguardo questi ultimi – con alcune riserve per una certa opacità dei dati – si osserva come in alcuni di essi, in posizione strategica sull’economia mondiale (Cina e Brasile per esempio) le casse pubbliche abbiano avuto una migliore tenuta rispetto ai paesi ricchi ma il settore privato invece presenti una impennata. Nel grafico che sintetizza gli andamenti dei paesi emergenti si nota come nei primi dieci di essi questo passi a circa il 50% sul PIL fra 2002-2004 a oltre il 90% nel 2015. Un andamento poco tranquillizzante, insomma.

Nel paragrafo sulle correlazioni fra indebitamento pubblico e privato scopriamo – e non ci sorprende ecessivamente – che «il più immediato effetto [del debito privato] deriva dall’uso delle risorse statali per risanare i bilanci delle banche, che può innalzare considerevolmente le passività pubbliche».

Parte cospicua del rapporto è dedicata alle strategie di discesa dal debito, che va sotto l’altisonante termine di deleveraging. Il limite struttuale dello studio, sebbene vada oltre, e di molto, le miopi prospettive dei sostenitori dell’austerità, è di non rinvenire fra le cause il meccanismo della accumulazione finanziaria in se stessa ma solo di alcune sue caratteristiche. Uno spiraglio, non approfondito, si apre constatando che «nei paesi a basso reddito un migliore acceso al mercato del credito si è tradotto negli ultimi anni in un maggiore indebitamento pubblico e privato più facili condizioni di finanziamento hanno portato ad un boom del debito privato in alcuni paesi emergenti». La finanziarizzazione non sarà il problema anche per gli altri paesi?

Ci arriveranno, siamo fiduciosi.