Ci sono molti modi di scrivere un giallo storico. Il più semplice e il più abusato è trasferire una trama fatta di delitti in un contesto antico ben descritto e magari, se l’autore è capace, adoperare anche il movente del delitto per scandagliare l’ordine dei valori e gli spettri di quell’epoca lontana. Un’altra via, la più colta, faticosa e impegnativa, è sforzarsi di far parlare e soprattutto pensare i personaggi come dovevano parlare e pensare gli abitanti di quel pianeta altro che è il passato. In Il marchio dell’inquisitore (Stile Libero Einaudi, pp. 330, euro 16.50) Marcello Simoni, che è stato archeologo, bibliotecario e storico prima di diventare scrittore affermato, ha scelto la seconda e più ardua via.

Il contesto è la Roma del ’600, il «Secolo di ferro». L’azione si svolge intorno ai giorni di Natale del 1624 e per molti versi propria la città eterna, descritta con minuzia e precisione, traversata dai protagonisti nei suoi diversi rioni, quelli ricchi e quelli miserabili, nelle sue osterie e nelle sue strade fangose, che nell’ipotesi dello scrittore l’inverno rigidissimo di quell’anno aveva mischiato a neve, nelle sue chiese, nei suoi palazzi vaticani e nelle sue ben 130 librerie, è la protagonista di questo libro.

È una città che, nel romanzo di Simoni, appare quasi spopolata di donne. Difficile trovare un altro libro in cui la presenza femminile sia così inconsistente e periferica. Ed è impossibile non provare un certo stupore, una sensazione di profondo spaesamento, di fronte a questa città tutta al maschile. Solo in un secondo momento ci si rende conto che quella fragorosa assenza è probabilmente voluta e mira a raggiungere lo stesso scopo della lingua particolarissima e aulica, curata con massima attenzione per adeguarla al mondo che deve descrivere, adoperata dallo scrittore: un effetto di realismo. Roma, capitale della cristianità, città di preti e cardinali, di ordini religiosi in feroce lotta tra loro, era probabilmente davvero una città dove la presenza delle donne era molto più scarna che nelle altri capitali dell’epoca.

Simoni è arrivato al successo, nel 2011, con il suo primo romanzo, Il mercante di libri maledetti. Come annunciato già dal titolo era una storia di libri, ambientata nel Medioevo. Nel caso specifico si trattava di un libro inesistente, capace di evocare gli angeli, inventato dallo scrittore come il Necronomicon di H. P. Lovecraft.

Di libri Marcello Simoni ha continuato spesso a parlare nei successivi romanzi, e ancora loro, i libri, sono protagonisti a pari merito con Roma di questo romanzo. Libri che erano allora ancora legati da un filo robusto all’arte medievale dei miniaturisti, e che erano allo stesso tempo una forza nuova ed esplosiva, temutissima dalle gerarchie ecclesiastiche, tenuta d’occhio e controllata a maglie strette sia dall’Inquisizione che dall’Indice.

Nella postfazione Simoni definisce il suo libro come un «giallo storico dedicato agli stampatori romani del XVII secolo» e ammette che scriverlo ha rappresentato «una sfida non da poco». Una scommessa azzardata ma vinta. La morte colpisce la prima vittima in una stamperia, e l’assassino allestisce la messa in scena in modo da farla apparire quasi divorata da un torchio. Ed è ancora intorno ai libri, volumi proibiti e messi all’indice, volumi sulfurei e magici, che si snoda la trama criminosa. Ma il mondo degli stampatori e dei torcolieri, delle botteghe in cui si vendeva quella merce scottante e dove si potevano trovare i primi fogli clandestini e ribelli, Simoni ha cercato non di inventarlo ma di scoprirlo nella sua realtà. Le dinastie di stampatori, legate tra loro da alleanze e parentele, che compaiono nel suo libro sono quelle che davvero dominavano il mercato allora. Così come sono personaggi reali i prelati e i cardinali in lotta tra loro che muovono i fili della storia.

Girolamo Svampa, domenicano e inquisitore itinerante, un frate scorbutico e scostante dedito al laudano e al culto della logica, coadiuvato da padre Capiferro un altro domenicano dalla memoria prodigiosa e in parte certamente modellato su Sherlock Holmes, deve scandagliare un universo in cui i confini tra religione e alchimia, servizio di dio e del demonio, fede e magia sono labili e malcerti. Va a sempiterno merito dell’autore aver rifuggito la tentazione di scivolare in una trama alla Dan Brown, e di aver dipinto l’alchimia, i testi magici e i Rosa Croce per come i contemporanei pensavano che fossero e non per come a noi piace immaginarli oggi, senza entrare nel merito dei loro misteri veri o presunti.