Il 26 giugno 2015, il secondo venerdì del mese di Ramadan, la Tunisia è nuovamente scossa da un brutale attacco jihadista. La Tunisia è considerato dagli analisti e dalle cancellerie occidentali il paese modello del processo democratico sviluppatosi dopo le rivoluzioni del 2011. Allo stesso tempo, tuttavia, i continui attacchi jihadisti e la presenza di circa 3000 tunisini nei campi di azione del jihad internazionale, mettono alla luce un paese in cui il salafismo jihadista ha assunto dimensioni importanti. Per molti osservatori si tratta di una contraddizione patente e pochi analisti sono riusciti a darne una spiegazione convincente.

Per poter capire meglio questo paese maghrebino, conviene mettere a fuoco quello che viene comunemente definito «processo democratico». Le agitazioni rivoluzionarie del 2010-11, che avevano portato rapidamente alla caduta del sistema autoritario dello stato di Ben Ali, avevano liberato un soggetto di contestazione popolare e giovanile anti-sistemico. Mentre la classe media interpretava il cambiamento di regime nel senso di una trasformazione democratico/liberale, per la maggior parte della gente comune, con rivoluzione o democrazia si intendevano pane e lavoro. Senza avere un progetto politico che ne esprimesse le rivendicazioni, questo soggetto sociale di esclusi ha tentato di far riconoscere le sue istanze.

Poiché le attese sono state quasi da subito disattese, varie opportunità politiche si creano per un potenziale, vero soggetto rivoluzionario, che trasformi il disordine sociale post-sollevamento in rovesciamento rivoluzionario dello stato post-coloniale. Per un tempo assai breve, nel 2011, il POCT, il Partito comunista operaio, coltiva il mito di comitati rivoluzionari sul modello dei soviet durante la rivoluzione russa del 1917. Il tentativo di costruire dei comitati di difesa della rivoluzione come prolungamento dei comitati di quartieri sorti spontanei durante le giornate del sollevamento, fallisce quando alla resa dei conti ci si accorge che la base popolare è molto più vicina alle istanze islamiste che comuniste rivoluzionarie.

Tra la fine del 2011 e il 2012, dopo le prime elezioni costituenti, la piazza dei quartieri popolari viene lasciata ai salafiti, che emergono come forza nuova, giovane e vicina alla cittadinanza più umile. Il successo è tale che in pochi mesi Ansar al-Sharia, il nuovo logo salafita/jihadista, si impone come la forza di contestazione più importante sulla scena.

Fare la differenza tra Ansar al-Sharia e le varie tendenze del jihadismo internazionale e locale può sembrare un’operazione bizantina, eppure è necessaria. Soprattutto perché il punto di svolta del processo di democratizzazione, caratterizzato dalla radicalizzazione del movimento salafita da un lato e dal ritorno dell’apparato autoritario, coincide con i due assassini politici del 2013, di cui sono vittima due popolari leader di sinistra. Da questo punto in poi, la Tunisia diventa vittima di una strategia jihadista più globale. Soltanto col tempo apparirà chiaro, grazie a ricostruzioni e confessioni, che un gruppetto di jihadisti, venuto in parte dalla Francia e dagli USA, e appoggiatosi su frange radicalizzate del movimento salafita locale, hanno eseguito questi assassini seguendo la famosa teoria (popolare in alcuni ambienti jihadisti) del management of sauvagery. Molto simile ad altre teorie rivoluzionarie, questa spiega come alcune azioni di violenza politica mirata possono scatenare la contraddizione in un processo di trasformazione sociale in cui le istituzioni sono deboli. Se il colpo è fatto in maniera tale da creare una polarizzazione nella società (o un caos generalizzato), ciò può favorire la creazione di un’avanguardia (islamica) che prende il potere su richiesta popolare. Questa teoria è studiata sulla considerazione che le società arabe hanno uno strato sociale essenzialmente beduino, recalcitrante all’ordine statuale: soltanto la dawa, ovvero l’islam, possono ricondurre la natura semi-anarchica delle popolazioni a uno spirito di corpo solo presupposto per la «civiltà».

A una logica di avanguardia rivoluzionaria adottata dai jihadisti dell’ISIS, si è opposta una strategia politica del fronte islamico, in chiave nazionale piuttosto che internazionalista. Ansar al-Sharia in Tunisia e in Libia e Jabahat al-Nusra in Siria rappresentano questa fattispecie. Quando in Tunisia dopo gli assassini politici frange estreme della sinistra tentano di ribaltare la situazione in loro favore e spingere il paese in un comitato di salute nazionale per scacciare gli islamisti moderati dal governo, Abu Ayadh, leader di Ansar al-sharia chiama gli islamisti moderati del Nahda a unirsi in un fronte islamico. Dopo mesi in cui il paese sembra scivolare sull’orlo del collasso, sullo sfondo di una polarizzazione crescente tra islamisti ed anti-islamisti, il Nahda, partito islamista di governo, rompe gli indugi e lascia per strada il gruppo salafita che viene dichiarato, nel mese di agosto 2013, organizzazione terroristica.

La criminalizzazione di Ansar al-Sharia ha portato all’inizio della spirale di violenza. Il processo democratico ha fatto fuori da quel momento in poi non solo l’unico soggetto realmente di contestazione rimasto sulla scena, ma ha rimesso in moto egualmente il processo di restrizione delle libertà pubbliche. Benché il processo di democratizzazione includa gli islamisti del Nahda, il ritorno alla «normalità» democratica fa emergere un paese spaccato in due, in cui buona parte della fascia giovanile ed emarginata non partecipa al processo elettorale. La lotta armata diventa un’opzione per una parte della componente salafista che si confonde con il lumpenproletariat dei quartieri popolari delle grandi e medie città del paese. Ansar al-Sharia scompare dalla scena e in parte rifluisce in Libia, dove l’evoluzione del processo politico crea nuove opportunità. Dall’Algeria un nuovo gruppo, minuscolo questa volta, si infiltra in Tunisia e raccoglie coloro fra i jihadisti tunisini che decidono di sferrare l’attacco allo stato. Okba Ibn Nefaa è un sottoprodotto dello storico marchio qaedista nord-africano AQMI. Al Qaeda, qui come altrove, adotta una strategia più politica e le sue operazioni sono mirate ai corpi di sicurezza. Gli attacchi di Bardo e Soussa sono attribuiti invece all’ISIS che, in una logica meno tunisina e più internazionalista, mirano ad espandere lo stato islamico verso ovest.

Il governo Essid, in una conferenza stampa organizzata in fretta e furia dopo gli avvenimenti scioccanti di Soussa, ha annunciato misure straordinarie contro associazioni e partiti di matrice islamica. Il governo, come una parte della società, fa fatica ad interpretare il fenomeno salafita/jihadista: l’improvvisazione di queste misure a caldo ne sono la prova. Le rievocazioni islamiche sono parte dell’immaginario collettivo di queste società. La strumentalizzazione dell’Islam a fini di rivendicazione sociale e politica ha percorso tutta la storia dei paesi arabo-musulmani e non dovrebbe meravigliare.

Anziché negare questa evidenza socio-politica, la società tunisina, l’intellighentia e la classe politica, farebbero meglio a trovare un modo per integrarla e istituzionalizzarla, depotenziandola del suo lato più intollerante e violento.