Riflettere sulla democrazia, oggi, potrebbe apparire una attività assolutamente superflua. Ne si conosce l’essenza e i caratteri precipui, come l’antica origine greca e le tappe fondamentali che – nel corso del procedere storico – ne hanno determinata l’affermazione e una diffusione così vasta. Con una buona dose di sicurezza, ognuno confida nella capacità di saper riconoscere il rispetto dello spirito democratico (o il suo sovvertimento) tanto negli atteggiamenti individuali, quanto nei comportamenti politici e in quelli delle istituzioni. Eppure – se è vero che la piena comprensione di un oggetto è verificabile solo attraverso la capacità di produrne una definizione del tutto esaustiva – si è costretti ad ammettere che questa conoscenza diffusa si limita all’individuazione di elementi convenzionali e di superficie.

«Forma di governo basata sulla sovranità popolare, in grado di garantire a ogni cittadino pari libertà e i medesimi diritti civili, politi e sociali, oltre alla partecipazione in piena uguaglianza dell’esercizio del potere pubblico». La si potrebbe considerare una buona definizione se la democrazia fosse uno schema rigido, un modello prefabbricato immediatamente e identicamente applicabile all’interno di qualsivoglia contesto culturale. Ma la sovranità popolare (espressione, già di per sé, fortemente vaga), al pari di ciascuna forma di governo, prevede una applicazione umana, che arricchisce di numerose variabili e di sfumature impreviste quella chiara compattezza che può essere caratteristica esclusivamente delle formulazioni teoriche.

D’altronde – come scriveva Maria Zambroni, già nel 1958 – il termine democrazia, così come avviene soprattutto con «certe parole di forte attualità» pone una questione semantica tutt’altro che trascurabile. A fronte di una incontrollabile ipersignificazione determinata dal continuo variare del contesto e del periodo storico nei quali sono state utilizzate, tali parole «diventano inservibili (…), oppure perdono credito quando le si impiega per mascherare fini inconfessabili, o ancora restano vacue, vuote o corrotte e senza valore come monete fuori corso e ormai prive di bellezza. (…) E tuttavia, con cosa si potrebbero sostituire, se non vogliamo rinunciare o rinnegare ciò che esse significano? Il problema deriva dal fatto che si continuano a usare nello stesso senso in cui si usavano un tempo. Sono state superate dal loro futuro, dal futuro insito in loro». La soluzione a questo cortocircuito appare ancora più difficile da individuare, se si accetta la teoria di Colin Crouch, secondo la quale il mondo contemporaneo si trova, oramai, in una dimensione post-democratica. Nella formulazione del politologo britannico – i cui elementi essenziali sono stati largamente assimilati, sebbene in una forma semplificata, nella comune percezione sociale – tale epoca ha avuta origine «quando gli interessi di una minoranza potente sono divenuti ben più attivi della massa comune nel piegare il sistema politico ai loro scopi; quando le élites politiche hanno preso a manipolare e guidare i bisogni della gente».

Questa ibridazione mostruosa della democrazia (più che negazione della stessa) ha trovato, probabilmente, un terreno ideale per la propria proliferazione nelle deformità del sistema capitalistico, nella sua irrimediabile propensione all’eccesso, nella sua aspirazione alla cancellazione stessa dell’idea di limite e di contenimento del proprio operare.

Mettere ordine in un orizzonte così complesso (cercando di individuare, al contempo, una strategia correttiva alle storture del sistema politico) è quello che si propone di fare Marina Lalatta Costerbosa con La democrazia assediata. Saggio sui principi e sulla loro violazione (DeriveApprodi, pp. 192, euro 17). Il volume si struttura in maniera decisamente solida. Ripercorrendo – tra le altre – le teorie e le idee di John Locke e di Thomas Hobbes, di Hannah Arendt e di Theodor Adorno, di Jürgen Habermas e di Cornelius Castoriadis, l’autrice si propone di giungere a una definizione del concetto di democrazia che, per quanto ampia, riesca a sciogliere le principali ambiguità comunemente diffuse riguardo a questo oggetto.

Una definizione che si compone anche in controluce, attraverso l’identificazione e la messa in analisi di quelle che possono essere considerate le più rilevanti insidie del sistema democratico, nel tentativo di distinguere «la realtà che noi nominiamo democratica e la democrazia nella sua vera essenza. E questo non solo per denunciare ogni ideologia e demagogia che contrabbandino il reale per l’ideale, ma anche perché la nostra soglia di consapevolezza critica non si abbassi ancora, in un momento storico in cui le spinte antidemocratiche sono talmente forti e inquietanti, talmente mascherate e subdole, da rendere necessario che si alzi la guardia per immaginare di poter porre anche solo le premesse per il perseguimento del fine democratico».

Non stupisce, allora, che il libro si apra e si chiuda su di una medesima considerazione (che prende le mosse da John Dewey, prima, e quindi da Jean-Jacques Rousseau) volta a mettere in luce il rapporto di reciproca necessarietà esistente tra democrazia ed educazione; un rapporto che, soprattutto oggi, appare tanto fondamentale quanto faticoso da realizzare.