«Sono il figlio del popolo cinese e amo profondamente il mio Paese». È una delle tante «frasi celebri» del «piccolo timoniere» Deng Xiaoping, scelta dal Quotidiano del Popolo per celebrare i 110 anni della sua nascita (22 agosto 1904). Le origini di Deng sono state tratteggiate dal suo erede attuale, Xi Jinping: «110 anni fa, il compagno Deng Xiaoping è nato a Guang’an, nella provincia del Sichuan (nel centro sud del paese ndr), quando la Cina era nel buio della società feudale, in preda all’oppressione e al bullismo delle potenze imperialiste».

Il ricordo di Deng, la sua vita, si confondono con la storia attuale del paese. Un percorso e le decisioni capace di traghettare la Cina da una condizione di arretratezza a ad una moderna potenza mondiale. Un lascito complesso, contraddittorio, sebbene la retorica del Partito, ad ogni anniversario, si trovi concorde nel ricordo. È il padre del «socialismo con caratteristiche cinesi» (Zhongguótèsè shèhuìzhuyì) e al contrario di Mao, che lo stesso Deng pose in una sorta di ripostiglio storico, il giudizio politico su di lui da parte del Partito è unanime. Anche perché ammettere il suo più grande torto storico, significherebbe porre in crisi l’intero dominio del Partito. Al di là – infatti – dei suoi meriti (tra cui il recupero di Hong Kong) e delle peculiarità del suo potere, Deng è stato anche l’artefice dell’evento più tragico degli ultimi anni di storia del Paese.

Fu lui a decidere per la mano dura nel 1989. Fu un Deng Xiaoping ormai vecchio ma ancora intenzionato a dirigere i fili della politica nazionale, a ordinare ai tank dell’esercito di sbarazzarsi degli studenti che da giorni presidiavano la piazza Tiananmen, sbeffeggiando il potere e mettendo a rischio le Riforme. Significò uccidere centinaia, forse migliaia, di persone, ponendo però politicamente il Partito al suo posto: al centro della vita politica, economica e sociale del paese. Una meta centralità – «Zhong guo», Cina, significa proprio «terra di mezzo» – che permise al Partito di superare una crisi pericolosa.

Del resto l’attuale Cina vive di quel patto di allora, tratteggiato da un uomo capace di uscire dal delirio della Rivoluzione culturale quasi da martire (subì successive epurazioni). «Arricchitevi (divenuto improvvisamente un atto «glorioso», come specificò Deng), e al resto pensiamo noi», questo l’accordo tacitamente accolto dalla popolazione. «Ci pensiamo noi», significava il Partito e nello specifico – almeno fino all’anno della sua morte, nel 1997 – lui: Deng Xiaoping.

Il 20 agosto – nell’ambito delle celebrazioni -Xi Jinping lo ha celebrato, come un «leader eccezionale, un grande marxista, un grande rivoluzionario proletario, statista, stratega militare e diplomatico, un provato combattente comunista, architetto della riforma socialista della Cina, dell’apertura e della modernizzazione, pioniere del socialismo con caratteristiche cinesi».

E non è un caso che Xi Jinping, l’attuale presidente, si sia speso con parole accorate e attente, come del resto fece Hu Jintao durante le celebrazioni del centenario. Ma le parole di Xi rientrano in un dibattito in corso nel paese, nel tentativo di capire che Presidente sia e quale sia il suo approccio alla politica e all’economia. Ci si chiede infatti, in Cina e non solo, se Xi Jinping sia più «maoista» o «denghiano». Secondo alcuni la sua stretta ideologica – consolidata nel primo anno e mezzo e ribadita negli ultimi mesi – ricorderebbe più Mao; secondo altri la sua lotta contro la corruzione per uno «Stato di diritto», o quanto meno qualcosa che ci si avvicini, e la sua spinta alle riforme economiche, ricorderebbero di più l’azione di Deng.

Il fatto è che proprio Deng, pur definendo e racchiudendo l’operato di Mao in un 70 percento «buono» e in un 30 percento «negativo» (alludendo al balzo in avanti e alla rivoluzione culturale), fu maoista tanto quanto il «Grande Timoniere». E così pare Xi Jinping.

Per «maoista», in questo caso, intendiamo proprio l’attenzione alla centralità del Partito. Di fatto, l’idea di lanciare i tank contro gli studenti, fu proprio l’estremo tentativo di salvare il Partito. E quella sistemazione e risoluzione del luan, del caos, è un elemento che ancora oggi viene ricordato dai cinesi con estrema felicità. Può apparire brutale, ma a parte una sparuta minoranza, Deng ancora oggi viene considerato una sorta di salvatore della patria. Deng Xiaoping dunque viene celebrato dai liberali che salutano con entusiamo e ringraziano le sue «Riforme»; un processo gigantesco che ha finito per lacerare socialmente un paese allora allo sbando. Lo celebrano i comunisti, perché Deng – in fin dei conti – ha permesso al Partito di godere, al massimo, proprio di quelle riforme. Cinico («non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che catturi il topo»), pragmatico («è necessario attraversare il fiume calpestando le pietre»), è stato l’artefice della rivoluzione economica del paese, aprendo la Cina all’esterno, dopo anni di chiusura e autismo politico e sociale.

Celebri a questo proposito i suoi viaggi negli Stati uniti, dove si fece anche fotografare con cappello da cow boy ad un rodeo. Le sue aperture, naturalmente, furono «alla cinese»: fu sempre diffidente e completamente immerso in quella cultura nazionale che vuole il cinese guardingo e alla ricerca solo di quanto serve. Un atteggiamento che si riscontra ancora oggi, almeno in politica internazionale.

Il «socialismo con caratteristiche cinesi», è una sua trovata, un escamotage linguistico, un modo per dimostrare che la Cina utilizza la storia come la classica cassetta degli attrezzi, utilizzando di volta in volta quanto più consono alle proprie «caratteristiche».

Non è tanto un metodo, qualcosa di organico, quanto un indirizzo, qualcosa capace di dimostrare la possibilità di far convivere elementi in apparenza contrastanti. La sua aprima battagli fu politica e ideologica, contro l’ala più dura e radicale del Partito e contro la teoria dei «due qualsiasi», portata avanti dall’allora primo successore di Mao, Hua Guofeng. Era la teoria che giustificava «qualsiasi» decisione politica fosse stata presa da Mao. «In un discorso del 24 maggio 1977 – come ricorda Marina Miranda in Mondo Cinese, in occasione dei cento anni dalla morte di Deng – appellandosi a un corretto uso delle categorie del materialismo storico, Deng sostenne che quanto Mao aveva affermato a proposito di una particolare questione non poteva essere applicato meccanicamente a un altro problema senza tener conto del differente contesto».

Dopo, ribadendo l’importanza di «cercare la verità nei fatti», si diede anima e corpo allo sviluppo economico, sfigurando la «politica», trasformata in «economia». Un passaggio definitivamente consacrato dal suo successore Jiang Zemin, con la teoria delle «tre rappresentatività». Ed ecco «l’attualità» mondiale, verrebbe da dire, di Deng: ridurre la complessità politica, ad una mera questione economica.