Fuori dall’aula, ma senza una strategia precisa, con tutte e due le minoranze azzurre, i verdiniani e i fittiani scontentissimi, e col capo da Arcore tanto distratto da indurre il legittimo sospetto che di questo Italicum gliene importi pochissimo.

Ieri mattina era stato proprio un Brunetta più che mai bellicoso ad annunciare che gli azzurri, con le altre opposizioni, avrebbero abbandonato l’aula al momento del voto. Scelta legittima, anche se come coniugare la richiesta del voto segreto con la decisione di uscire dall’aula resta un mistero della fede che solo un’insanabile tendenza masochista può spiegare.

Luca D’Alessandro, braccio destro di Verdini, resta platealmente in aula, nonostante le insistenze sempre più pressanti per convincerlo ad alzare i tacchi. Non vota ma in privato confessa di essere stato tentato dall’astensione, unica maniera per far comparire sul tabellone un dissenso col voto segreto, e di essere stato fermato da Verdini in persona, al telefono. Poi in transatlantico si sfoga: «Abbiamo dato a Renzi la possibilità di dimostrare che può contare su una maggioranza anche senza la minoranza Pd». Romano, fittiano, invece resta e vota contro. Sono solo due casi singoli, ma rivelano quella che sarebbe stata la scelta delle due minoranze se non avessero preferito evitare lo showdown col capo: l’astensione morbida per i verdiniani, il voto contrario a viso aperto per i fittiani.
Entrambe le correnti hanno preferito rinviare lo scontro decisivo: Fitto perché aspetta l’esito delle regionali per sferrare l’attacco e perché non vuole offrire appigli a un Berlusconi che non vede l’ora di toglierselo di torno. Verdini perché non vede motivo di scoprirsi e bruciarsi i ponti alle spalle per supportare un Renzi che, al momento, non ha alcun bisogno delle sue truppe di rinforzo.

Il capogruppo Brunetta, nonostante l’esito tutt’altro che felice della partita e nonostante la pioggia di critiche che, nei corridoi, i suoi deputati gli fanno diluviare addosso, canta vittoria: «E’ una vittoria di Pirro. Oggi si dimostra che al Senato Renzi non ha più i numeri per la riforma costituzionale». Trionfalismi risibili ma fino a un certo punto. In parte, Brunetta ha davvero recuperato in extremis quella decina di deputati che, fino all’ultimo, nonostante gli ordini di scuderia, erano rimasti in aula e avevano votato. Ed è anche vero che per Renzi il vero rischio non è mai stato il passaggio alla Camera, dove i suoi numeri sono troppo forti per temere davvero, ma al Senato. In realtà è già dato quasi per scontato che a palazzo Madama la riforma costituzionale subirà modifiche serie e che quindi i tempi di approvazione finale, tra un passaggio e l’altro, slitteranno fino all’autunno e oltre, più i sei mesi necessari per il referendum confermativo.

La Lega, invece, non ha mai avuto dubbi. Già a metà mattina era arrivato l’ordine di Salvini: «Se fossi deputato, abbandonerei l’aula e non voterei». Calderoli, padre della legge che da ieri è storia passata, invoca l’intervento del capo dello Stato: «Al peggio non c’è mai fine. Questa è una superporcata. La palla passa a Matarella e vediamo se avrà il coraggio di promulgare una legge peggiore del Porcellum, cancellato da una sentenza della Corte costituzionale di cui lui stesso era membro». Quel «coraggio» Mattarella lo avrà, e probabilmente Calderoli lo sa benissimo. Le voci dal Colle dicono che il presidente ha già deciso. Le opposizioni non hanno fatto molto per spingerlo a non cedere.