«La parte di te che desideri rendere pubblica al resto del mondo è già in quella macchina da presa?».
Su un tetto di Chelsea, nella New York del 1966, la regista Shirley Clarke pone questa domanda a Jason Holliday, la star del suo film Portrait of Jason. Ma quelli che vediamo sullo schermo non sono i veri Jason e Shirley, bensì gli attori che li interpretano nel film di Stephen Winter presentato in questi giorni al Festival Mix di Milano di cinema gaylesbico e queer culture: Jason & Shirley.
Con il suo lavoro il regista di Chicago, nato due anni dopo l’uscita di Portrait of Jason, ricrea i retroscena, gli «outtakes», i momenti salienti di quello storico film del 1967, frutto di oltre dodici ore di intervista che la regista di Park Avenue fece al gigolò e asprirante cabarettista nero e omosessuale nella sua penthouse al Chelsea Hotel.

Stephen Winter rende chiaro fin da subito di non avere nessun intento documentaristico o di fedeltà alla realtà: il suo Jason & Shirley nasce dall’inserirsi della sua immaginazione negli eventi da cui nacque il film, nei personaggi e soprattutto in Jason, unica «movie star» nera e omosessuale di un film di grande rilevanza storica e artistica. Portrait of Jason è un documentario che riguarda il tema «della razza, la sessualità e la natura della verità» e del desiderio, recita la didascalia che apre il film di Winter, che da uomo e regista mulatto e omosessuale si confronta quindi con i sentimenti e le riflessioni che il film ha suscitato in lui nel corso dei vent’anni trascorsi dalla prima volta che lo ha visto.

Una mattina del 1966 Jason Holliday si presenta a casa di Shirley Clarke, e parla con lei della propria vita: a partire dalla famiglia che non lo ha mai accettato in quanto omosessuale fino alla violenza della legge nei suoi confronti e il suo lavoro di «puttana» – come dice lui stesso: «e non me ne vergogno» – e soprattutto la tragedia della ricerca di una libertà impossibile.
Nell’interpretazione che ne dà Winter, Jason si difende dai tentativi di Clarke di arrivare a una qualunque verità su di lui: «sei dispotica come le altre donne bianche per cui lavoro», le dice, e alle sue domande svincola raccontando barzellette dello spettacolo di cabaret che vorrebbe portare a teatro.

Shirley Clarke lo incalza, e durante la pausa pranzo lo porta sul tetto, dove gli chiede se davvero lo spettacolo di se stesso che ha imbastito è  ciò che vuole mostrare al mondo. Ma Jason non demorde, e la regista deve infine ricorrere all’aiuto del comune amico Carl Lee – l’attore dei suoi film precedenti The Connection e The Cool World – per cercare di spezzare la sua resistenza.

L’accento è quindi posto sulla frustrazione di Shirley nel rapporto con Jason, e questo è forse il motivo per cui la figlia della regista e la Milestone Films, che ha curato il restauro di Portrait of Jason, si sono scagliati duramente contro il lavoro di Stephen Winter, accusato di aver manipolato e travisato la realtà in modo irrispettoso e superficiale, senza curarsi di fare ricerca sull’argomento o di contattare le persone coinvolte come appunto Wendy Clarke.

«La mia intenzione non è mai stata di replicare quel giorno – ha però spiegato Stephen Winter – e contattare persone che non conosco non mi avrebbe aiutato a fare il film che volevo. Mi serviva scendere a fondo nell’archivio della mia vita per trovare il Jason che c’è in me, per rivelare così quel Jason che alberga in tutti noi».
Dopotutto, come dice la Shirley Clarke del film al suo irrequieto protagonista, avvolto in un boa di struzzo rosa, «l’arte nasce da un rapporto». Anche se conflittuale.