“Il videogioco, qualsiasi videogioco, può comunicare, insegnare, commuovere, persuadere, insegnare, coinvolgere. Il fatto che venga percepito come un testo superficiale, pensato ‘per divertire e basta’, non dipende certo da non ben precisati limiti intrinseci al medium, quanto piuttosto alle scelte, più o meno obbligate, degli sviluppatori e degli editori. […] Non deve […] sorprendere se molti utenti, e parte della critica specializzata, quella più becera, sembrano rifiutare a priori l’idea che un videogame possa essere usato per ‘dire qualcosa’, comunicare un’idea, diffondere un’ideologia, difendere un credo. […] Metal Gear Solid […] è, in ultima analisi, un testo politico prima ancora che ludico.”

Quanto scritto da Bruno Fraschini nel 2003 (nel libro Metal Gear Solid: l’evoluzione del serpente, il secondo volume della fondamentale collana Ludologica – curata da Matteo Bittanti e pubblicata da Unicopli – dedicata ai game studies) rimane ancor oggi estremamente attuale e valido perché i giochi che Kojima ha “diretto” nel frattempo – altri 3 episodi “canonici” più svariati tie-in – non hanno stravolto l’impianto originario ma semmai l’hanno arricchito ed approfondito. La genialità di questo autore videoludico può misurarsi anche su un altro metro: la novelization delle sue opere. Normalmente lo scrittore che si occupa della novelization di un’opera videoludica ha due problemi: come compensare la mancanza d’interattività e come aggiungere materiale al plot spesso fin troppo striminzito del videogioco. Raymond Benson, per altro bravo scrittore che, oltre che di videogiochi, si è occupato di continuare la saga di James Bond, ha completamente fallito il compito con i due romanzi dedicati a Metal Gear Solid 1 e 2 (entrambi pubblicati da Multiplayer.it) proprio perché il materiale narrativo messo a disposizione da Kojima nella sua serie è sovrabbondante, metatestuale, autoreferenziale, e spesso allegramente riscrivente la continuity interna in un modo che lascia spiazzati i puntigliosi appassionati occidentali delle saghe fumettistiche targate Marvel e DC.

Nel quinto capitolo, Phantom Pain (ma settimo se consideriamo anche i due – comunque canonici – episodi del 1987 e 1990 per MSX), Kojima ci riporta alle origini della saga, con un prequel che ci fa indossare (forse) i panni di quel Big Boss, progenitore genetico dell’eroe Solid e dell’anti-eroe Liquid Snake, mentre pone le fondamenta per un’invincibile organizzazione di mercenari indipendente ed indifferente a stati ed ideologie. La prima versione di questo esercito privato è Militaires Sans Frontières e probabilmente non è un caso che il nome richiami la nota ONG di volontariato medico. La MSF prima e i Diamond Dogs poi sono un’organizzazione sempre più potente che si inserisce nei disordini mondiali al soldo di stati e privati col fine unico di diventare sempre più ricca e potente. In un certo senso l’esatto contrario dei Patriots, gruppo di potere segreto americano, alla cui fondazione ha contribuito lo stesso Big Boss, per pilotare in modo occulto le scelte politiche del proprio paese. Ma se l’apparenza non potrebbe essere più diversa – da una parte un sistema alternativo di potere profondamente innestato nei meccanismi burocratici di un paese, dall’altra un’organizzazione fiera della propria indipendenza da qualsiasi governo – è evidente come la crescita dell’organizzazione presunta indipendente la porta a pesare sulle decisioni che influenzano trame e complotti davvero senza frontiere per modificare gli equilibri internazionali.

Per quanto in MGSV la struttura open world penalizzi la narrazione privilegiando il play (e quindi accontentando tutti quelli che si erano lamentati di fronte alle sempre più lunghe sequenze non interattive inserite fino al quarto episodio) il succedersi delle missioni da affrontare e l’infittirsi della trama ci fanno dimenticare ben presto le incongruenze relative all’ambientazione e le difficoltà con la continuity, ci coinvolgono nonostante stavolta Kojima ci metta nei panni di un guerrafondaio privo di etica impegnato in qualsiasi sporca guerra che possa essere redditizia. L’obiettivo? Non farci diventare a nostra volta mercenari e guerrafondai (come Grand Theft Auto non vuole trasformarci in ladri ed assassini) ma al contrario farci riflettere su come i conflitti che abbiamo studiato a scuola, e quelli di cui siamo testimoni dai giornali e dalla televisione, siano in realtà uno schermo, su come il videogiocatore che pensa di essere il protagonista dell’azione, mentre in realtà è “giocato” dal creatore del gioco, sia la metafora della nostra (in-) capacità di essere attivi e propositivi sulla realtà “vera” che ci circonda.