Più di un decennio fa ho avuto il privilegio di raccontare la carriera di mio padre, storico gallerista di avanguardia, in un documentario commissionato da un canale televisivo specializzato in arte, che intitolai, Almodovarianamente, Tutto su mio padre. Quando me lo proposero, lì per lì, su due piedi, pensavo di non essere in grado di farlo: troppi intrighi mentali ostacolavano il mio amore per lui nel raggiungimento dell’obiettivo finale. Per un mese l’ho seguito, intervistato, controllato dall’alto del mio occhio cinematografico, filtro necessario a sbrogliare la matassa informe e labirintica dentro cui mi ero persa dall’adolescenza. Passammo un buon tempo, pieno di aneddoti, curiosità, verità svelate come caramelle d’orzo che si scartano da sole. Quel piccolo film divenne lo spartiacque silenzioso che segnò il definitivo disarmo pacifico tra le fila di eserciti freudiani e junghiani, in eterna psicoanalitica rivalità tra loro. Di base il rapporto tra padre e figlia è un casino, tra Edipo, Narciso, uccisione del padre e compagnia bella. Se il padre vive nel mondo dell’arte, in quanto artefice di bellezza, la relazione si complica oltremodo.

Come si dimostra amore nel mondo dell’estetica? Agata Boetti pubblica in questi giorni Il gioco dell’arte. Con mio padre, Alighiero (edizioni Electa). Il libro parte dall’esigenza della figlia dell’artista, scomparso prematuramente nel 1994, di trasmettere ai suoi figli una parte importante della storia familiare che non hanno vissuto. Agata (che ricordo come la sorella piccola del mio amichetto Matteo) scioglie le fila di un padre presente e assente allo stesso tempo, preso dalla totalità della creatività, spesso in viaggio in Oriente a comporre i suoi tappeti-arazzi-ricami-mappe-combinazioni di parole.

La bambina giocava con lui a trovare nuove intuizioni, snodi matematici, trasformazioni della realtà in azione formale artistica alla ricerca del bello. Il vantaggio, per una minorenne, di divertirsi nella creazione è situazione rara e anomala: percepire la diversità di un genitore che non esce ogni mattina alle otto per rientrare la sera alle otto, che non ha uno stipendio fisso, che non vive i giorni della settimana come una gabbia dentro cui obbedire eseguire o comandare, sono sensazioni mutevoli nella mente di una bambina alle elementari. Vivere diversamente da tutti gli altri apre il cervello come un quaderno le cui pagine non hanno un verso; è come correre su un sentiero che porta all’arcobaleno ma che è fermo sul posto, come un tapis roulant incantato; è esaltante e scombussolante come essere una pallina nella ruota di un bingo. L’aspetto disorientante della diversità familiare non è dichiarata, nel libro di Agata, come un’arma a doppio taglio: l’amore incondizionato, dritto al bersaglio raggiunto da freccia incandescente, senza ombre, addensato nel dolore della perdita paterna, è più forte di qualsiasi altro ricordo.
Ricordo che seppi della morte di Alighiero il 25 aprile del ’94, sotto una pioggia come se ne prendono poche volte nella vita, durante la grande manifestazione nel giorno della liberazione all’indomani della prima vittoria di Berlusconi: forse me lo disse un amico incontrato per caso o forse da una cabina avevo chiamato casa e mamma me lo aveva detto, non ricordo, è passato troppo tempo, ma ricordo bene il dispiacere che mi fece, pensando al papà di Matteo, pensando quanto potesse essere tragico perdere il padre così presto durante la propria esistenza di figlio o di figlia…

Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia insolita, in cui le cose più strane erano normali, in cui a volte i gesti erano performance, la musica indiana volteggiava nella grande stanza fumosa, un cannone a grandezza naturale accoglieva in ingresso gli ospiti che dovevano scalzarsi per passeggiare sui tappeti persiani e le stuoie indiane in tutte le stanze, in cui mio padre aveva il codino senza essere un hippie e indossava pantaloni arancioni di seta senza essere gay, come gli dicevano dietro all’uscita della mia scuola media. Tutto questo, e altro ancora, ha fatto di me quella che sono oggi. Ringrazio mio padre per avermi offerto la libertà su un piatto d’argento della cucina futurista.

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