Simul stabunt vel simul cadent, è la diagnosi, o meglio la narrazione di quanto è accaduto, ove i soggetti avvinghiati da questo comune destino sono la socialdemocrazia europea e il comunismo più o meno inverato. Lo sviluppo della contraddizione alto/basso, connessa con un anticapitalismo strutturale e attivo che riporti in auge i concetti di socialista e di comunista, «marxianamente intesi come sinonimi», ricusando la dimensione da politique politicienne del termine sinistra, può essere la terapia e la soluzione per riempire quel vuoto che la crisi di quest’ultima ha lasciato. Questa è la sintesi che si può trarre da un piccolo ma densissimo libro che contiene una conversazione fra Carlo Formenti e Fausto Bertinotti (Rosso di sera, Jaca Book,, pp. 108, euro 12).

Una esperienza in divenire

Se per comunismo inverato è sufficiente riferirsi al campo sovietico e al suo crollo per chiarire di cosa si parla (il libro tace delle sorti del comunismo cinese e questo è indubbiamente un limite che i due autori si sono scientemente dati), maggiormente complessa è la definizione di socialdemocrazia. Per farlo Bertinotti ricorre alle caratteristiche che John K. Galbraith usò per definire il capitalismo dei «trenta gloriosi», ovvero l’intervento dello Stato in economia; una politica fiscale ridistributrice di reddito verso il basso; relazioni sociali di lavoro basate sulla contrattazione collettiva. In questi tre tratti si può riconoscere anche l’essenza della prassi della socialdemocrazia europea. Parlando di quella tedesca in particolare andrebbe un aggiunto un altro elemento non trascurabile, la Mitbestimmung, ovvero la partecipazione, seppur parziale (e spesso inefficace come si è visto nel caso Volkswagen) dei lavoratori nel controllo delle imprese.

Definita così l’esperienza socialdemocratica non può non essere accostata a quella del New Deal roosveltiano, ma con due differenze che Bertinotti sottolinea. Mentre il New Deal si cala in un’epoca di de-globalizzazione segnata dalla Grande Crisi, la storia degli anni migliori della socialdemocrazia europea e tedesca in particolare è tutta iscritta in una nuova fase di sviluppo del sistema capitalistico. In secondo luogo mentre negli Usa il motore del New Deal è direttamente lo stato, in Germania è il partito socialdemocratico che assume su di sé la costruzione di un simile quadro sociale e istituzionale. La formidabile crescita tedesca nel dopoguerra non è tuttavia attribuibile solo ai meriti della socialdemocrazia, quanto al fatto che la Germania ha sfruttato i vantaggi delle politiche keynesiane mondiali e ha goduto della rendita di posizione di bastione contro l’espansionismo sovietico. Il piano Marshall è servito anche a questo.

Il welfare state, oltre che derivare da una migliore comprensione dei meccanismi che producono le crisi economiche, è stato concepito dalle classi dirigenti, anche quando veniva ad esse strappato da dure lotte di classe, come la soluzione per ammorbidire la rivolta sociale e incanalarla entro i binari del sistema dato. Il ruolo funzionalista della socialdemocrazia non nasce solo nell’epoca del suo inarrestabile declino. Nello stesso tempo esso originava uno spazio contrastante con la sola produzione di valori di scambio.

Il demone ordoliberale

Tuttavia non vi è una meccanica automaticità in quel simul stabunt vel simul cadent. Infatti le teorie neoliberiste compaiono da subito sullo scenario postbellico, con il famoso manifesto di Mont Pelerin del 1947, nel quale von Hayek, von Mises, Milton Friedman, Eucken (l’autore nel 1936 dell’atto fondativo dell’ordoliberalismo), Popper e altri ancora si propongono di difendere la libertà dell’uomo tanto dal comunismo sovietico quanto dalle politiche keynesiane. È lì che comincia quel lungo lavoro da talpa che li vedrà vincenti agli inizi degli anni Ottanta. Questa è una delle ragioni, per la quale il crollo del comunismo e la contemporanea crisi irreversibile della socialdemocrazia, non trova una risposta a sinistra. Quando la sinistra «rivoluzionaria» si trova il campo sgombro dai nemici e dai contendenti che riteneva principali, lo incontra già occupato dal neoliberismo il cui percorso aveva del tutto sottovalutato. La «rivoluzione restauratrice» messa in atto su scala mondiale da parte di quest’ultimo è stata potente e ha fatto egemonia. Anche nei confronti dei movimenti rivoluzionari dell’Occidente, spesso risucchiati nella modernizzazione capitalistica, con vantaggi per i singoli al prezzo di una sconfitta rovinosa per le collettività.

Le grandi trasformazioni del mondo del lavoro – su cui non si indaga mai abbastanza e sulle quali Carlo Formenti ha fornito in precedenti libri importanti contributi – hanno tolto il terreno sotto i piedi per la rinascita di una sinistra. È quindi fuorviante prendersela con la «mutazione antropologica» delle giovani generazioni.

L’ambiguità populista

Più che di un superamento definitivo del clivage destra/sinistra – ancora percepibile nel senso comune, quando dalle sigle si scende sul terreno dei valori, come quello dell’uguaglianza – si dovrebbe dire della crisi profonda del pensiero e dei soggetti che dovrebbero farsene carico. Che fare allora? La risposta che Bertinotti fornisce sta nella riconsiderazione del populismo che assume «come centrale il conflitto alto/basso al posto di quello destra/sinistra». Tuttavia il populismo è intrinsecamente ambiguo. Possiamo individuare un prevalente, in base al quale concludere che ve ne sono almeno due, uno di destra e uno di sinistra (ecco tornare il vecchio clivage), uno dall’alto e uno dal basso. Ma qui non siamo in America Latina, ove «indigenismo» e miseria sociale sono le basi e le molle del populismo, se si vuole ingenuo ma non ambiguo. Nel caso italiano più che l’ombra di Ernesto Laclau insistono quelle dell’Uomo qualunque di Giannini e il più tradizionale trasformismo. Il caso del M5Stelle è emblematico. Per mantenere viva e pagante la sua ambiguità condita di xenofobia rifiuta le alleanze, ma quando vi è costretto dai meccanismi istituzionali, vira a destra, come con Nigel Farage nel Parlamento europeo.

Un problema di forza

D’altro canto ogni progetto di trasformazione deve fare i conti con il potere. Bertinotti scarta le semplificazioni alla John Holloway, mostrando più considerazione per le tesi più raffinate di Dardot e Laval su una «possibile trasformazione sociale senza conquista del potere». Del resto la potestà degli stati nazionali è stata svuotata dalla dimensione sovranazionale della governance a-democratica e dall’extra istituzionalizzazione dei poteri reali. Lo si è visto nel caso greco e nella sostanziale impraticabilità del piano B, a meno di non farlo coincidere con la Grexit di Schauble. Ma resta il tema della forza, senza la quale non si può spezzare quella potente dell’avversario né resistere al suo ritorno. La forza è in primo luogo egemonia, avvio di un potere costituente, con altri mezzi e regole di quello costituito. Così possono accadere la vittoria di Syriza in Grecia, ammaccata ma non piegata dai colpi della Troika; quella di Corbyn nel Labour; il governo delle sinistre in Portogallo, con un diverso ruolo dei socialisti. Tutto fragile, ma certamente il mondo non è né un algoritmo né un ologramma.