Negoziato in standby: con il sole ieri è tramontato anche il dialogo tra il califfo al-Baghdadi e re Abdallah di Giordania. Se mercoledì sera l’accordo di scambio era dato per certo (il pilota giordano Moaz al-Kasasbeh e il giornalista giapponese Kenji Goto contro la qaedista Sajida al-Rishawi), ieri la situazione è stata stravolta dal secondo ultimatum lanciato dagli islamisti: le autorità giordane avrebbero dovuto consegnare la donna al confine con la Turchia entro il tramonto, ora di Mosul, pena l’esecuzione immediata dei due ostaggi.

Ieri sera, ore dopo la scadenza, di Goto e al-Kasasbeh non si avevano ancora notizie. Eppure la Giordania – che in serata si diceva ancora pronta a completare lo scambio – ha chiaramente mostrato l’intenzione a trattare con il califfato per avere indietro un proprio cittadino, ma soprattutto membro della potente tribù della città di Karak.

Prima di consegnare al-Rishawi, aspirante kamikaze a cui si inceppò la cintura esplosiva, Amman ha preteso però maggiori assicurazioni: all’Isis le autorità giordane hanno chiesto prove che al-Kasasbeh – catturato a dicembre mentre sorvolava la Siria – fosse ancora in vita. Prove che ieri non sono arrivate. Per questo, ha fatto sapere alla stampa un funzionario governativo rimasto anonimo, il negoziato è saltato.

«Non abbiamo ricevuto nessuna prova che al-Kasasbeh è ancora in vita – aveva detto qualche ora prima il portavoce del governo, Mohammad al-Momani – Abbiamo bisogno di una prova per poter completare l’accordo stipulato ieri [mercoledì per chi legge, ndr]». Dai miliziani islamisti è arrivato soltanto un messaggio audio dove a parlare sarebbe il giapponese Goto, costretto a dettare l’ultimatum.

Tokyo e Amman non sono mai state tanto vicine: la convulsa giornata di ieri ha legato i destini di un militare e un giornalista, ma anche quelli dei vertici di due paesi che in modi diversi e con diversi obiettivi prendono parte alla lotta al califfato. Tokyo, che pochi giorni prima del video con cui l’Isis annunciava la cattura di due cittadini giapponesi, il 20 gennaio, aveva messo sul piatto mediorientale 2.5 miliardi di dollari in aiuti non militari, punta a salvaguardare gli enormi interessi energetici che la legano alla regione, del cui greggio è uno dei principali acquirenti.

Amman, alleato Usa di vecchia data e sostenitore delle opposizioni moderate anti-Assad, prende parte alla gara nel tentativo di garantire la sicurezza dei propri confini: con 500 km di frontiera condivisi con Siria e Iraq, 2mila propri cittadini diventati miliziani dello Stato Islamico e 1.5 milioni di rifugiati siriani nel proprio territorio, la Giordania teme che un contagio settario interno ribalti il tradizionale equilibrio modellato dalla monarchia e fondato sulla spartizione del potere tra le tribù sunnite. La sorte dello stesso al-Kasabeh, esponente di una tribù potente e rispettata, avrà effetti interni: da giorni si susseguono proteste, non certo frequenti in Giordania, contro la monarchia. Ieri erano decine i manifestanti davanti il palazzo reale nella capitale.

L’Isis, da parte sua, procede con il suo sadico gioco, lanciando sfide personali ai governi arabi e occidentali con il chiaro obiettivo di rafforzare il proprio messaggio propagandistico. La liberazione di al-Rishawi (in prigione in Giordania dal 2005 per aver preso parte ad una serie di attacchi suicidi in cui morirono 57 persone) farebbe il gioco di al-Baghdadi: la qaedista è la sorella di uno dei leader di al-Qaeda in Iraq più vicini al fondatore al-Zarqawi, figura di riferimento per il califfato. Ma anche un mancato rilascio gioverebbe allo Stato Islamico, che potrebbe mostrare ai propri adepti il potere esercitato su autorità costituite e anche la capacità di punire chi i diktat non li rispetta.

Alla porta resta Washington e il suo noto mantra del «con i terroristi non si tratta», nonostante le eccezioni per cui la Casa Bianca ha auto-assolto se stessa: ieri il Pentagono ha definito lo scambio dello scorso anno (5 talebani detenuti a Guantanamo per il sergente Bergdahl, catturato 5 anni prima in Afghanistan) «una situazione completamente diversa» perché in quel caso «si trattava di uno scambio tra prigionieri di guerra e non ostaggi».

In ogni caso, gli Stati Uniti non sembrano voler intervenire nella questione, divisi tra la politica ufficiale del non negoziare mai con l’Isis e le necessità interne dell’alleato giordano, la cui stabilità garantisce da sempre anche gli interessi statunitensi nella regione.