Quando nell’aprile del 1938, dietro suggerimento del comune amico Walter Benjamin, Gershom Scholem e Theodor Wiesengrund Adorno s’incontrano per la prima volta a New York, è con franca diffidenza che si guardarono l’un l’altro: così, almeno, racconta Jürgen Habermas recensendo sulla «Zeit» il ricchissimo carteggio tra i due, uscito da poco in Germania a cura di Asaf Agermann: Briefwechsel (Corrispondenza), (Suhrkamp, pp. 560, euro 41,10): «Adorno, che aveva conosciuto Benjamin negli anni venti tramite sua moglie Gretel, non era privo di una certa gelosia nei confronti di Scholem, più vecchio di lui e soprattutto amico più intimo e di più lunga data di Benjamin. Scholem invece, che non vedeva di buon occhio «la dipendenza economica di Benjamin dal ricco Istituto di Scienze sociali di New York, non voleva saperne di “quella gente”», che definiva «la setta».
Quando lo scambio epistolare ebbe inizio, nell’aprile del 1939, era trascorso un anno esatto da quel primo incontro e Adorno aveva appena ricevuto in dono da Scholem la sua traduzione tedesca dello Zohar, uno dei libri più importanti della mistica ebraica; i due studiosi si trovavano rispettivamente in esilio, l’uno a New York, l’altro a Gerusalemme, anche se Scholem era emigrato in Palestina già dal 1923, dove rimase fino alla morte, evitando di mettere piede in Germania, fino al 1956.
Assai diffidenti, dunque, l’uno nei confronti dell’altro, l’esponente della scuola di Francoforte e il grande studioso di mistica ebraica, il teorico marxista e il sionista convinto, il materialista e il credente, si scambiarono solo tre lettere prima dell’appello che Adorno rivolse a Scholem, nel luglio del 1940, perché intervenisse con una raccomandazione capace di far ottenere a Benjamin un affidavit per gli Stati Uniti. Ma l’8 ottobre 1940 Adorno scrisse: «Walter Benjamin si è tolto la vita. Aveva ottenuto a Marsiglia il visto americano e la domiciliazione presso l’Istituto, era tutto a posto». Quando Scholem ricevette la lettera di Adorno (che impiegò quattro settimane ad arrivare in Israele) aveva appena saputo da Hannah Stern (in seguito Arendt) «la terribile notizia».
Negli anni immediatamente successivi, lo scambio epistolare andò avanti a fatica: c’era la guerra, le lettere arrivavano (quando arrivavano) con enorme ritardo. In un primo momento fu Adorno a prendere l’iniziativa: poiché voleva allestire un inventario degli scritti di Benjamin, e commemorare l’amico attraverso l’Istituto di scienze sociali, chiedeva consiglio a Scholem. Cosa pubblicare subito? E cosa in seconda battuta? Lo scritto del 1915 su Hölderlin, propose Scholem senza esitazioni, oppure una lettera su Kafka che Benjamin gli aveva scritto, testi che possedeva in originale e che avrebbe potuto trascrivere; ma dal settembre del 1942 le lettere di Scholem – che contenevano appunto testi di Benjamin trascritti, liste di suoi manoscritti e altro materiale prezioso, rimasero senza risposta.
Fino al 1949 Adorno tacque ostinatamente, ma poi fu lui a riprendere il dialogo: «Innumerevoli volte sono stato sul punto di scriverle e ogni volta mi sono bloccato. È probabile che questa reazione vada in gran parte ricondotta allo shock per la morte di Benjamin: in questi anni, i miei rapporti con le poche persone a lui vicine erano come paralizzati». Chiese dunque aiuto a Scholem per la realizzazione di un’edizione delle opere di Benjamin, ciò che avrebbe costituito l’argomento principale di tutte le lettere successive, fino all’aprile del 1955, quando finalmente Suhrkamp accettò di pubblicare una scelta delle opere di Benjamin in due volumi così come l’aveva concepita Adorno. Poco più avanti si sarebbe concretizzato il progetto delle lettere di Benjamin che Adorno e Scholem curarono insieme e che sarebbero uscite nel 1967.
Ma anche altri personaggi vagano per il carteggio, figure cardine del Novecento che suscitano negli scriventi simpatia, ricordi, ma pure sentimenti di ostilità o rivalità: Martin Buber e Siegfried Kracauer, Ernst Bloch e Hannah Arendt, nei confronti della quale i rapporti erano particolarmente problematici. In un primo tempo, fu Adorno a mostrare maggiore insofferenza, mentre Scholem dichiarava per la filosofa la sua stima e simpatia. Ma l’uscita, nel 1963, della Banalità del male provocò l’indignazione di Scholem, che mandò a Adorno la replica di Hannah Arendt alle sue critiche. «Mille grazie per la lettera del primo novembre e la corrispondenza con la signora Arendt – rispose Adorno. Tutto ciò mi ha confermato nell’antica antipatia che provo nei confronti di questa signora fin dalla giovinezza; per la sua smisurata ambizione e per la sprovvedutezza intellettuale».
Lo scambio epistolare tra Scholem e Adorno si fece più fitto e meno formale (anche se si diedero sempre del Lei) quando il progetto di pubblicazione delle lettere di Benjamin favorì un maggiore avvicinamento dell’uno agli interessi dell’altro. Nonostante la sua scarsa curiosità per la musica, che era al centro del lavoro di Adorno, Scholem si sforzò quanto meno di leggere in chiave filosofica i testi che l’altro gli mandava, e quando Adorno gli dedicò il suo saggio sul Mosè e Aronne di Schoenberg, Scholem gli scrisse: «Spero un giorno di poter sentire da qualche parte questo Mosè e Aronne, così da farmene un’idea»; ma poi spostò subito l’obiettivo su uno dei fuochi del loro scambio intellettuale: «Le sue osservazioni su quest’opera e sulla musica sacra nel nostro tempo, sono notevoli (…) Perché in effetti non è facile prevedere in quali forme si esprimerà nel nostro mondo la tradizione del sacro».
Fin da subito interessato agli studi di Scholem sulla mistica ebraica, Adorno vi leggeva non solo una via di accesso al pensiero dello stesso Benjamin ma anche una chiave per comprendere quali sarebbero state le sorti del sacro dopo l’illuminismo, se e come esso avrebbe potuto migrare nel profano. «Ci sarebbe moltissimo da dire» scrisse Adorno già nella lettera del ‘49, quando riprese i contatti con Scholem «in particolare sul suo libro (Le grandi correnti della mistica ebraica) a proposito del quale non le ho mai scritto ma che ho letto e riletto (…) Mi ha colpito soprattutto il capitolo sulla cabbala lurianica, i cui concetti fondamentali mi sembrano estremamente produttivi. Quante cose avrei da chiederle, soprattutto in relazione agli orizzonti speculativi della sua teologia e al modo in cui hanno influito su Benjamin».
Dal sodalizio intellettuale tra i due studiosi, consolidatosi nella condivisa intenzione di far conoscere e rimettere in circolazione l’opera e le idee dell’amico comune, nacque dunque un dialogo rispettoso e vivace, fatto di stima reciproca e solidarietà sincera: lo dimostra, tra l’altro, il pacato ma fermo sostegno che Scholem assicurò a Adorno nel momento in cui, era il 1968, venne attaccato proprio per le edizioni delle opere e delle lettere e accusato di manipolazione del lascito di Benjamin.
Un dialogo rispettoso e vivace fatto di stima reciproca e solidarietà percore questo carteggio, non soltanto intellettuale, tra due studiosi che non sembravano fatti per incontrarsi e che approdarono, invece, a una valorosa amicizia. E, forse, il punto di convergenza tra i due, ovvero la risposta alla questione centrale del sacro e della sua sopravvivenza in epoca moderna, è stretta nella citazione da Aby Warburg, che il curatore ha scelto come sottotitolo di questo splendido carteggio: «Il buon Dio abita nel dettaglio». Scholem la cita più volte nelle lettere, ma per entrambi i corrispondenti il sacro riveste una funzione eterodossa e antiideologica. «Se mi permette di riassumere in un’unica frase la mia opinione» scrisse Scholem dopo aver letto la Dialettica negativa di Adorno, «questa è la frase: non ho mai letto una difesa più onesta e trattenuta della metafisica». Ma la lettera così si conclude: «Non si potrebbe essere più eretici nei confronti del materialismo storico, e proprio il momento eretico della Sua filosofia materialista, sarà probabilmente ciò che rimarrà nella mente del lettore».