Per continuare l’analogia pugilistica universalmente impiegata dai media, il dibattito Clinton-Trump non ha prodotto un knockout ma un KO tecnico forse sì. Il consenso degli analisti (e dei primi sondaggi fatti dai network) è che Hillary Clinton ha vinto piuttosto agevolmente il primo confronto diretto fra i candidati.

Il dibattito era stato preceduto da un enorme battage e la promessa di ascolti da Superbowl (si è parlato di 100 milioni di telespettatori; in realtà sarà difficile capire esattamente quanti hanno guardato la diretta su mezza dozzina di canali TV, radio e streaming in rete).

Per l’occasione sono stati prodotti spot pubblicitari a tema confezionati per l’occasione – come quello della birra Tecate incentrato su un muro al confine messicano, dell’altezza giusta per usarlo come bancone bi-nazionale per gli aperitivi. E l’aspettativa è stata  accresciuta dai più recenti sondaggi elettorali che rivelano una sostanziale parità statistica (46%-46%) e, più preoccupante per i democratici, un apparente consolidamento di consensi per Trump in alcuni cruciali “swing states”, stati in bilico, come l’Ohio, l’Iowa, il Nevada, il Colorado, che potrebbero determinare l’esito finale del collegio elettorale e quindi dell’elezione.

Con queste premesse, qualche minuto dopo le 21 locali, sul palco della Hofstra University di Long Island sono saliti i due contendenti.

Il primo argomento affrontato è stato quello del lavoro e i due hanno subito ribadito le rispettive posizioni.

Hillary ha parlato di investimenti sociali,  incentivi alle piccole imprese, aumento dei minimi, compartecipazione degli utili e parità retributive.

Alla linea “socialdemocratica” dell’avversaria, Trump ha opposto la prevedibile diatriba sulle aziende che trafugano posti di lavoro americani con la complicità di paesi stranieri spiegando come una presidenza Trump li avrebbe presto fatti pentire entrambi. La collaudata narrazione di rivalsa, manichea e semplificata tanto efficace con la base trumpista.

Trump, che ha allargato la critica all’iniziale sostegno di Clinton per i trattati di libero commercio, è sembrato a sua agio su questo terreno. Anche davanti agli attacchi di Hillary che lo ha schernito per aver ricevuto 14 milioni di dollari dal padre e di riproporre ora ricette fiscali del liberismo reaganiano, Trump è sembrato avere la meglio in fatto di lavoro e di economia ridotta ai minimi termini del suo populismo ben rodato. Alle obiezioni dell’avversaria ha potuto ripetutamente replicare con varianti tipo:  “Sei una tipica politica di professione. Tante parole e poi ci rimette la gente comune”.

In seguito però è stata Clinton a marcare punti e recuperare terreno approfittando di alcuni scivoloni del palazzinaro. “Ha approfittato della crisi immobiliare per fare incetta di proprietà e arricchirsi,” ha accusato Hillary. “Si chiamano affari” ha replicato il magnate impenitente.

Poco dopo Hillary lo ha messo nuovamente alle corde sulla questione del conflitto di interessi e della dichiarazione dei redditi che Trump si ostina a non rendere pubblica (è la prima volta in 40 anni di presidenziali, ndr). “O non ha i soldi di cui si vanta, o non è filantropico come dice, o ha grossi debiti all’estero o non paga le tasse” ha detto la Clinton. Anche pagare il minimo di tasse, ha replicato Trump sarebbe segno di “senso degli affari.”

Da qui si sono moltiplicate le occasioni in cui Clinton è riuscita a far perdere a Trump il filo o le staffe guadagnando gradualmente sicurezza. Era previsto che anche in questo dibattito l’obbiettivo principale fosse trasnettere un’immagine presidenziale, convincere gli elettori soprattutto di essere all’altezza della Casa bianca e nelle ultime fasi del contradditorio  Clinton è riuscita ripetutamente a far perdere la calma all’avversario.

[do action=”citazione”]Il momento peggiore per Trump è stato quando ha dovuto affrontare la questione della cittadinanza di Obama.[/do]

Per molti anni Trump ha alimentato la “conspiracy theory” di stampo maccartista secondo la quale il presidente non sarebbe americano ma nato in Kenya. Dopo anni di accuse all’inizio del secondo mandato, Obama aveva infine ceduto alle richieste e pubblicato il proprio certificato di nascita (alle Hawaii), ma nemmeno questo aveva placato Trump che per almeno due anni ancora aveva insinuato che si trattasse di un documento falso.

Giustamente chiamato in causa come fautore di una campagna razzista per delegittimare il primo presidente afro americano, Trump si è lanciato in un complicato discorso in cui ha accusato Clinton di aver sollevato per prima la questione e si è vantato di aver costretto Obama a “dire la verità”. Come per molti dei suoi momenti migliori, Clinton ha potuto limitarsi a farlo parlare, osservandolo con aria studiatamente incredula e malcelata soddisfazione.

Dato che in questi dibattiti i fatti e i progetti politici sono considerazioni secondarie rispetto alle “impressioni”, si può legittimamente dire che una Clinton preparata e sorridente ha avuto la meglio su un Trump progressivamente più agitato.

Hillary ha soprattutto azzeccato il “tono” giusto, proiettando competenza ma non condiscendenza, ma solo fino a un certo punto, con le esternazioni più astruse dell’avversario e sicurezza “presidenziale.”

La battuta di maggior successo Hillary l’ha avuta quando ha esclamato: “Sì io mi sono preparata per questo dibattito, e sai cosa Donald? Mi sono preparata anche a fare il presidente”.

Gli elettori  in cerca di una “giustificazione” per votare Hillary ieri potrebbero averla trovata.

In una gara così polarizzata però i margini degli indecisi sono certamente assai esigui e difficilmente ci saranno elettori che cambieranno idea in base ai dibattiti.

In più Trump anche se in svantaggio dialettico ha potuto contare su un argomentazione semplice quanto efficace. “Clinton è al potere da 30 anni. Perché non ha risolto i problem in cui ci troviamo?”.

La forza di Trump è cioè anche la debolezza fatale di Hillary: quella di rappresentare  il passato in un momento di forte voglia di cambiamento – una sete di reali riforme anti sistema che ha spinto il movimento di Sanders oltre ogni pronostico.

È una enorme vulnerabilità che forse solo la paura di Trump potrà vincere.