Il referendum lacera le famiglie, figurarsi se non può spaccare una redazione. Ventiquattro ore dopo il siluro dell’Economist contro Renzi e la sua riforma, la medesima testata, stavolta nell’inserto annuale, scrive l’esatto opposto. Il Sì deve vincere, altrimenti «l’Italia si troverà ad affrontare uno scenario famigliare di turbolenze politiche e forse economiche». Il cronista nemmeno finge di dissertare sulla riforma: «Il voto è diventato di fiducia al governo. Non è certo che nel 2017 il giovane premier sarà in carica. Questo è l’aspetto più disastroso». L’importante insomma è che Renzi resti in sella.

È significativo che l’endorsement non si spinga sino a minacciare sfracelli finanziari in caso di vittoria del No. Dopo la rassicurazione della Bce di giovedì anche il ministro Padoan, che pure si dichiara ovviamente «totalmente in disaccordo» con l’Economist, esclude tassativamente l’eventualità di attacchi speculativi come quelli del 2011 se il governo sarà battuto, e altrettanto dicasi per eventuali effetti sulla legge di bilancio. La partita è tutta e solo politica, e il vero punto di frizione col settimanale inglese è proprio sul governo tecnico. Padoan è di parere opposto: «Serve un governo politico che continui a fare le riforme, cioè questo governo».

Il compassato Padoan evita di cogliere l’occasione propagandistica. Renzi non ci pensa due volte e si scatena. Sa che negli incubi degli italiani la formula «governo tecnico» richiama immediatamente l’esecutivo più odiato di tutti, quello Monti-Fornero, e ci sguazza: «L’ultimo governo tecnico che mi ricordo ha alzato le tasse. Se qualcuno pensa che nella palude, con un governo tecnico, le cose vadano meglio per l’Italia voti pure No». E i suoi comunicatori rigirano la lama facendo filtrare la voce che a ispirare il settimanale inglese sia stato proprio lui, Mario il Sobrio. Il quale, per la verità, cerca di smarcarsi. In un’intervista al Financial Times assicura che non c’è bisogno di governi tecnici e si augura «che Renzi rimanga e riprenda con rinnovato vigore il lavoro lasciato a metà».

Peccato che Renzi non abbia alcuna intenzione di seguirlo su questa strada. L’ultima cartuccia che gli resta da sparare è minacciare il caos, cercare di spingere gli elettori a votare non sulla riforma e neppure sull’operato del suo governo ma sulla scelta tra un sentiero comunque noto e il classico “salto nel buio”. Rassicurare e tranquillizzare è l’ultimo dei suoi interessi. Dunque coglie l’occasione offerta da Berlusconi, che al contrario mira spegnere ogni principio d’incendio e propone un tavolo per le riforme se il Sì sarà sconfitto, e replica con un secco Niet: «A quel tavolo ci trova D’Alema e Grillo, che magari è meglio. Io non resto a vivacchiare». «È un irresponsabile che mira a condizionare il voto con la paura», commenta Loredana De Petris.

Diagnosi precisa. Immaginare che l’ultima settimana di una campagna elettorale già tanto tesa possa vertere sul merito della riforma è un miraggio. Al Nazareno si dicono convinti di aver recuperato una parte dello svantaggio, anche contando sul voto degli italiani all’estero che i medesimi strateghi prevedono tutto o quasi per il Sì. L’ultimo giro della corsa sarà quindi teso a convincere gli indecisi e la paura è a tal fine un ingrediente sempre molto efficace.

La serenità che promette Berlusconi è improbabile. Di Maio ha bocciato ieri ogni chimera di tavoli e tavolini, annunciando che M5S chiederà elezioni immediate. È un gioco delle parti. Se Renzi si dimetterà, arrivare al voto prima di aver riscritto la legge elettorale è fuori discussione. E la data delle elezioni dipenderà esclusivamente da quanto tempo il Parlamento impiegherà per assolvere al compito.