«Siete una minaccia di livello accettabile, altrimenti lo sapreste». Queste parole di Banksy, street artist londinese, sono perfette per capirci sul tema della diffamazione.

Come fa un giornalista ad accorgersi che ha colto nel giusto? Dal numero di querele che riceve. Come si fa a far smettere un giornalista che ha trovato una pista efficace per le sue denunce? Gli si chiede un risarcimento danni dal primo articolo. Secondo l’osservatorio di Ossigeno per l’informazione il 40% delle richieste di risarcimento verso giornali e giornalisti è legata a querele per diffamazione.

Chi vince di fronte a una querela per diffamazione? Chi ha più soldi. Cioè chi può impegnare più tempo e risorse a seguire le lunghe cause che ne possono derivare: pagando investigatori, scovando testimoni, ottenendo perizie, reclutando gli avvocati più esperti. Secondo voi tra il giornalista di un foglio locale siciliano e un grande gruppo imprenditoriale multinazionale, al netto della serietà e competenza dei giudici, chi ha maggiori possibilità di vincere?

I cavilli giuridici e il «potere contrattuale» dei ricorrenti fanno sempre la differenza.

Troppo comodo dire che i giornalisti vogliono garantirsi la libertà di diffamare opponendosi alla brutta legge di riforma della diffamazione a mezzo stampa. Troppo comodo per gli stessi giornalisti ergersi a paladini di una stampa degna di questo nome quando dicono che loro stessi e i colleghi devono «pagare» se hanno scritto il falso. La labilità del confine tra il diritto alla salvaguardia dell’onore e della reputazione e la libertà di espressione è una costante per chiunque comunichi, attraverso qualsiasi mezzo. Ogni articolo, servizio, programma, inchiesta, che faccia nomi e cognomi, calcoli e stime, ipotesi e ricostruzioni, è potenzialmente diffamatorio.

È diffamazione pubblicare un fatto palesemente falso. Pubblicare un fatto falso con l’intento di danneggiare qualcuno è peggio.

Ma se la notizia di un fatto vero è rilevante per l’interesse generale, e la notizia è pubblicata o trasmessa senza intento doloso, non c’è diffamazione anche se si danneggiano la reputazione o gli interessi di qualcuno perché si considera la libertà di espressione un valore più alto in quanto tutela un interesse collettivo (alla diffusione dell’informazione e delle idee). E tuttavia anche il racconto di un fatto vero, riportato senza intento malevole e senza effetti chiaramente dolosi, può riportare degli errori, offrire diverse angolazioni di lettura che possono o sono oggettivamente lesive della dignità dell’interessato.

Per questo, siccome il reato di diffamazione è tipicamente contiguo alla libertà d’informazione, al diritto di cronaca, al diritto di critica e di satira, si configura facilmente come un reato d’opinione. E un reato d’opinione non può essere perseguito senza l’intervento di un giudice e il necessario dibattimento.

Tuttavia le basi della riforma attualmente all’esame del Parlamento sono sbagliate, perché anche se si elimina il carcere per i giornalisti le multe sono esorbitanti anche se un giudice non ravvede un comportamento doloso di chi scrive arrecando un ipotetico danno. Ma è sbagliato anche introdurre una libertà di replica integrale e illimitata senza risposta del giornalista da chi eventualmente si sente diffamato. È sbagliato anche prevedere una sorta di diritto all’oblio per le testate online in tempi eccessivamente ristretti affinché l’articolo diffamatorio possa scomparire dal web per una vocale scritta male.

Perciò sono benvenuti gli emendamenti proposti in commissione Giustizia alla Camera. Tra questi, più tempo e uno spazio ad hoc per le rettifiche, multe dimezzate o quasi (da 50 a 30 mila euro), cancellazione dell’introduzione del diritto all’oblio. Vedremo se passeranno.