Ieri a Minneapolis un gruppo di uomini armati ha aperto il fuoco contro un presidio che da una settimana protesta per l’ennesimo nero ammazzato dalla polizia. I cinque feriti chiedevano giustizia per Jamar Clark, 24 anni, ucciso dopo una colluttazione con agenti, uno delle oltre mille vittime della polizia quest’anno in America, di cui 261 afro americane. Rimane alta quindi la tensione attorno alla letale violenza di polizia che ha dato vita al movimento di black lives matter.

Di recente il fronte della contestazione anti razzista si è spostato nelle università americane. Ultimamente sit-in, occupazioni, cortei e presìdi sono all’ordine del giorno in dozzine di atenei, dove studenti di colore manifestano contro la violenza ma anche contro una discriminazione strisciante, «microaggressioni» e un generale clima di «ostilità istituzionale». Un movimento di studenti che ha portato nelle scuole le istanze nate sulle strade di Ferguson e Baltimora.

Malgrado una apparente integrazione, nelle università i neri rimangono minoritari rispetto non solo ai bianchi ma anche agli ispanici, in forte crescita demografica e asiatici, iscritti in percentuale doppia rispetto a quella della popolazione generale. Un razzismo residuo fotografato da statistiche come quella sul numero di maschi neri iscritti a università (1.341.354) rispetto a quello, solo di poco inferiore, rinchiusi in carcere (844.600).

«Il problema è che queste istituzioni non sono state create per noi» sintetizza ai microfoni della radio pubblica NPR Makiah Green, recentemente laureata alla University of Southern California di Los Angeles. «Le decisioni prese dagli amministratori raramente prendono in considerazione i problemi e le istanze degli studenti di colore e delle minoranze».

In parte le proteste si ricollegano alla annosa controversia sul torbido passato di molte delle più prestigiose istituzioni universitarie. Negli ultimi anni è emersa più chiaramente la storia segregazionista di alcune della università più illustri del paese. Da Brown, fondata nel Settecento dall’omonima famiglia di mercanti di schiavi del Rhode Island a Yale, Harvard e Princeton, che furono centri accademici di promulgazione «scientifica» dello schiavismo. Gli scheletri nell’armadio di Princeton in particolare sono anche i più recenti, dato che il preside nel primo decennio del ‘900 fu il futuro presidente Woodrow Wilson, ardente segregazionista che pontificava spesso sull’inferiorità della «razza nera».

La scorsa settimana un coordinamento denominato Black Justice League ha occupato un edificio dell’amministrazione chiedendo che venisse cambiato il nome alla Woodrow Wilson School of public and international affairs e che il nome di Wilson venisse rimosso dagli edifici dell’istituto. Gli studenti hanno ricevuto la solidarietà di Cornel West che proprio a Princeton ha studiato e insegnato e che ha deplorato il «crudele strascico di suprematismo bianco» dell’università.

La lotta di quest’anno per ammainare la bandiera confederata in South Carolina ha dimostrato che la storia della segregazione è chiaramente ancora sentita come assai attuale dai discendenti delle vittime.

Il vero problema sembra piuttosto la mancanza di vero progresso da parte dei discendenti degli autori delle storiche discriminazioni.

Con preoccupante regolarità si susseguono episodi di «goliardia universitaria razzista» come i cori anti-neri usati per le iniziazioni di una confraternita di studenti bianchi della Oklahoma University, il cappio attaccato a maggio a un albero sul campus della Duke University o i batuffoli di cotone – simbolica piantagione – lanciati davanti a una fraternity afro americana della Missouri University.

Quest’ultimo ateneo, a Columbia, la capitale dello stato, a un paio d’ore di macchina dalla tristemente nota Ferguson, è diventata l’epicentro dell’attuale movimento.

A fine ottobre il rinvenimento di una svastica disegnata in un bagno dell’università ha indotto uno studente a proclamare lo sciopero della fame e chiedere le dimissioni del preside, colpevole di non aver sanzionato ripetuti episodi di intemperanza e la prevalente atmosfera discriminatoria.

La svolta c’è stata quando alla protesta si è unita la squadra di football che alla «mizzou», com’è nota l’università, è una specie di religione. I giocatori della squadra del college – neri in grande maggioranza – hanno incrociato anche loro le braccia in solidarietà con gli scioperanti.

Lo sport, e soprattutto il football, è parte integrante del business model che sostiene le università Usa, le quali lucrano ingenti parcelle dalla vendita di diritti televisivi per campionati i cui atleti per legge non posso essere retribuiti.

All’antivigilia di una cruciale partita coi rivali della Brigham Young university in Utah, il preside ha così dato le dimissioni con sorpresa degli stessi protestanti che non si attendevano una vittoria così netta e immediata.

Una decisione motivata con tutta probabilità non solo da una improvvisa rivelazione etica ma facilitata dal rapido calcolo del danno economico che avrebbe arrecato il forfait sul campo.

Pochi giorni dopo, una sua collega, preside del prestigioso Claremont McKenna college in California, si è anche lei dimessa in seguito alle proteste di una coalizione di studenti neri ed ispanici. Il corpo studentesco su quel campus, dove insegnò David Foster Wallace, è composto di bianchi (43%), ispanici (12%), asiatici (10% e neri (4%). Mary Spellman, incaricata dei rapporti con gli studenti, aveva scritto ad una studentessa ispanica che «non rispecchiava il prototipo» della scuola.

Secondo gli studenti, che anche qui hanno iniziato uno sciopero della fame, sarebbe stato solo l’ennesimo episodio emblematico di una scarsa sensibilità nei confronti di un corpo studentesco multietnico che chiede modifiche istituzionali atte a rispecchiare meglio una nuova composizione demografica.

Proteste sono attualmente in corso alla UCLA, Lewis & Clark, Yale, e l’alma mater di Obama, l’Occidental College.

In ogni caso una nuova generazione di militanti studenteschi chiede la diminuzione degli esorbitanti costi delle università, maggiore sensibilità verso le minoranze e in generale articola una critica politica più generale al razzismo fisiologico ancora vivo nel melting pot americano.

–> Nell’edizione del manifesto in edicola il 25 novembre 2015 una versione ridotta di questo articolo