Da una parte dolci e champagne, dall’altra gli scontri con la polizia. La notte dopo l’impeachment ha mostrato così i due volti del Brasile: a favore o contro la destituzione della presidente, decisa dal Senato con 61 voti contro 20. Superato ampiamente il quorum dei 2/3 richiesto agli 81 senatori che hanno giudicato la prima presidente donna del paese per un inesistente falso in bilancio. Le mobilitazioni durano dal 12 maggio, quando Rousseff è stata sospesa dall’incarico per 180 giorni ed è andata a sostituirla il suo vice, Michel Temer, uno degli artefici del «golpe istituzionale».

Dopo l’assunzione di Temer come presidente ufficiale del Brasile, approvata dal Senato, le proteste si sono moltiplicate in una decina di Stati, anche se solo a San Paolo si sono registrati incidenti. La polizia in assetto di guerra non ha potuto impedire che la rabbia dei manifestanti si sfogasse contro i principali simboli dell’attacco a Rousseff, come il grande quotidiano Folha de Sao Paolo.
A San Paolo due diverse concentrazioni di manifestanti, a favore e contro la destituzione, si sono dirette al centro e per la terza notte consecutiva la polizia ha lanciato gas lacrimogeni per disperdere i sostenitori di Rousseff, che hanno risposto alle cariche. A Brasilia si sono mobilitati centinaia di simpatizzanti del Partito dei lavoratori (Pt), ora all’opposizione. Una gran folla ha accompagnato Dilma durante il suo breve discorso, cantando l’inno nazionale. E già nelle prime ore della notte, diverse centinaia di persone si sono riunite davanti al Congresso, al grido di «Fora Temer». Proteste contro «l’usurpatore» si sono verificate anche Rio de Janeiro e in altre capitali dell’interno, come Porto Alegre, Salvador e Vitoria.

Si consuma così, con una rottura istituzionale, la grave crisi politica della principale economia sudamericana, la più grave dalla fine della dittatura (1964-1985). E s’interrompe il ciclo dei governi “petisti”, durato – con Lula da Silva e poi con Rousseff – per 13 anni. Anni di progetti economici rivolti ai settori più deboli e di diritti civili. Anni di crescita in cui i cantori del moderatismo hanno voluto vedere un’improbabile conciliazione fra imprenditori e operai, affaristi e funzionari di un partito forgiato nei grandi ideali. Un punto su cui, nell’ultimo congresso – a crisi ormai conclamata – è tornato a esprimersi il Pt, auspicando un ritorno alle origini e una svolta a sinistra, qualora Dilma fosse tornata al suo posto: un’autocritica rispetto alle magagne messe in luce dalla mega-inchiesta Lava Jato, che indaga l’intreccio tra affari e politica intorno all’impresa petrolifera di Stato Petrobras. Un’apertura rispetto alla domanda di riforme strutturali avanzata in questi anni dai movimenti popolari, che avevano appoggiato Dilma sub condicione nel suo secondo mandato.

Rousseff avrebbe voluto indire un referendum per una riforma costituzionale, onde superare la frammentarietà del quadro politico che ha reso impossibile maggioranze stabili e ha agevolato il disastro. E così una formazione moderata come quella di Temer e dell’ex presidente della Camera, Eduardo Cunha – il Pmdb – che non ha mai vinto un’elezione, è risultata il sempiterno ago della bilancia per la costituzione di maggioranze. E ha saputo approfittarne, togliendo il puntello alla presidente, sotto attacco dal giorno dopo aver vinto, con poco margine di scarto sul suo avversario di destra Aecio Neves (Psdb).

«Un gruppo di corrotti indagati è salito al potere, da oggi metteremo in atto la più ferma e instancabile opposizione che un governo golpista, omofobo e razzista può soffrire. Farò ricorso in tutte le istanze, il mio non è un addio ma un arrivederci a breve», ha detto Dilma, attorniata dai suoi. I difensori hanno già fatto ricorso alla Corte Costituzionale. L’unica consolazione, per ora, è che Dilma ha potuto mantenere i diritti civili: l’aula ha accettato infatti di stralciare la decisione dell’impeachment da quella dell’interdizione per 8 anni dai pubblici uffici, che sarebbe arrivata di conseguenza. Rousseff è nuovamente stata bocciata, ma senza la necessaria maggioranza dei 2/3.

Temer, che subito dopo l’investitura è partito per il G20 in Cina, ha ribattuto piccato. E mentre, da Cuba al Venezuela, dall’Ecuador alla Bolivia, l’arco dei paesi socialisti ritiravano gli ambasciatori, il governo «de facto» è stato riconosciuto subito dagli Stati uniti, che hanno mosso le loro pedine in questi mesi, e dall’Argentina di Maucirio Macri, i cui fili sono tirati dagli stessi terminali internazionali che muovono il gabinetto Temer. Schieratissimo anche il Paraguay mentre ha mantenuto i piedi in due scarpe la Colombia, perno dell’Accordo del Pacifico (insieme a Cile e Perù) a cui si volgerà l’asse neoliberista per minare la nuova integrazione latinoamericana e il ruolo dei Brics.

A fianco di Dilma, invece, l’ex presidente argentina Cristina Kirchner destinataria, insieme al presidente venezuelano, Nicolas Maduro, di una lettera di Lula da Silva in cui l’ex presidente denuncia i nuovi piani delle forze conservatrici contro l’arco progressista latinoamericano.