Non sappiamo e non siamo interessati a conoscere l’orientamento sessuale degli atleti, ma se soltanto Usain Bolt fosse stato gay (e qualora lo avesse dichiarato pubblicamente) sarebbe andato incontro a una pena tra gli otto e i quattordici anni di carcere.

Nella sua Giamaica, come in altri ben quarantotto Stati, secondo i dati forniti dall’International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association (Ilga) negli ultimi tre anni ci sono stati arresti e condanne alla carcerazione per il solo fatto di essere omosessuali.

Le atlete giamaicane Shelly-Ann Fraser-Pryce e Shericka Jakson, a differenza dei loro colleghi maschi, non avrebbero invece rischiato di finire in galera, perché in Giamaica come in altri settantadue Stati è punita solo la relazione tra uomini e non quella tra donne. Quest’ultima è punita più o meno severamente in quarantacinque nazioni.
Kianoush Rostami. Sohrab Moradi, Ghasem Rezaei e Saeid Abdevali, i primi due, vincitori di altrettante medaglie d’oro nel sollevamento pesi e i secondi due vincitori di altrettante medaglie di bronzo nella lotta, se mai fossero stati omosessuali avrebbero rischiato la pena di morte nel loro Iran.

Sono ben tredici gli Stati che applicano la pena di morte per il «crimine» di omosessualità inserito tra i delitti più gravi. Ed in quattordici Stati vi è una pena che va dai quindici anni fino all’ergastolo.

Mindaugas Griškonis, Saulius Ritter, Donata Vištartaite e Milda Valiukaité, canottieri argentati baltici, sono gli unici europei dell’area comunitaria che avrebbero potuto rischiare una sanzione penale, se mai fossero stati gay. La Lituania, infatti, non ha ancora depenalizzato il delitto di propaganda.

Qualora Rachele Bruni, che ha dedicato la sua medaglia d’argento vinta nei 10 chilometri di fondo nel nuoto alla sua compagna, fosse stata lituana o russa avrebbe rischiato l’incriminazione per istigazione alla commissione del reato di propaganda omosessuale.

La mappa della criminalizzazione delle scelte sessuali nel mondo è tragica. Essa è il dramma di un diritto penale messo al servizio delle follie omofobe e machiste di regime.

Le Olimpiadi costituiscono una platea straordinaria per un messaggio forte che possa essere utile a cambiare i colori dell’atlante della criminalizzazione, a ridurre il numero degli Stati che a vario titolo e in vario modo puniscono l’orientamento sessuale di uomini e donne, ergendosi a giudici e boia della vita delle persone.
Fehaid Al-Deehani ha vinto l’oro nel tiro a volo-double trap sconfiggendo in finale l’italiano Marco Innocenti. Ha gareggiato sotto la bandiera olimpica, in quanto la sua federazione kuwaitiana è stata squalificata.

Se mai fosse stato gay e se mai lo avesse dichiarato, anche lui avrebbe rischiato qualche anno di prigione. Non sarebbe male se partisse dallo sport olimpico una campagna per la depenalizzazione, per l’uguaglianza, contro ogni forma di discriminazione per motivi di orientamento sessuale. Regaliamo la bandiera olimpica a tutti quelli che rischiano la vita o la galera perché gay.