Al Teatro principale di Caracas, sede del Comando di campagna Bolivar Chavez, lo schermo si spegne, troncando il discorso presidenziale. Qualcuno ha fretta di chiudere i battenti. È quasi l’una di notte, gli operai ripongono addobbi e bandiere. Il buio inghiotte gli sguardi: trionfanti, indignati o battuti. La giornata elettorale è stata lunga. I seggi hanno aperto alle 6 di domenica e la coda è continuata fino alle 19, obbligando il Consiglio nazionale elettorale (Cne) a prolungare l’orario di chiusura, previsto per le 18. Una giornata «di festa democratica», senza incidenti di rilievo.

A tre ore dalla chiusura delle urne, arriva la conferma dei sondaggi: l’opposizione venezuelana vince ampiamente sul chavismo. Le destre riunite nel cartello Mesa de la Unidad democratica (Mud) ottengono 72 rappresentanti nominali e 27 per lista, per complessivi 99 deputati. Il Gran Polo Patriotico, la coalizione governativa guidata dal Partido Socialista Unido del Venezuela (Psuv) totalizza 46 seggi, 24 rappresentanti nominali e 22 per lista.

Il conteggio riguarda il 96,3% delle schede scrutinate dal sistema automatizzato. Al momento in cui scriviamo, restavano da attribuire 22 seggi, dove si è registrato un testa a testa: 17 incarichi nominali, 2 di lista e 3 per le rappresentanze indigene nella zona di oriente, occidente e del sud. La Mud si è però già attribuita 112 deputati.

Su una popolazione di oltre 33 milioni di abitanti (più di 6 milioni vivono nella capitale) e quasi 19,5 milioni di aventi diritto (a partire dai 18 anni), ha votato il 74,25%. Il voto, segreto e facoltativo, ha rinnovato un parlamento di 167 deputati,164 per gli stati e 3 per la quota indigena. Il chavismo ha ottenuto il 42%, la maggioranza dei municipi e diverse governazioni. Alla campagna dell’«uno per dieci» che aveva calcolato 8 milioni di voti, non c’è stata sufficiente risposta.

In tanti hanno voltato le spalle. E il chavismo ha perso questa ventesima elezione dei suoi 17 anni di governo. Un voto di castigo. «Girando per i quartieri – ha detto ieri il presidente Maduro – abbiamo visto gente farsi intorno e darci coraggio, ma erano tanti quelli che non avevano il dito mignolo macchiato dall’inchiostro del voto».

Come nel Cile di Allende, i poteri forti e i loro padrini nordamericani hanno «fatto gridare l’economia» venezuelana. Un’opposizione senza progetto né morale ha avuto gioco facile nell’accentuare le debolezze, le ingenuità e gli errori del chavismo, impiegando i soldi di Washington per comprare consensi e scontenti.

Per mantenere in piedi il grande business del contrabbando oltrefrontiera, il paramilitarismo colombiano ha infiltrato e rimodellato la criminalità locale. In ogni strada del paese, code chilometriche nei supermercati sussidiati e prezzi stellari negli altri negozi, in spregio alle leggi che impediscono un guadagno superiore al 30% sul prezzo di costo.

In ogni coda, abbiamo visto agitatori e accaparratori organizzati manipolare folle esasperate da ore di attesa: «Basta con questo governo corrotto, il Venezuela chiede un cambiamento», dicevano i volantini. Quale?

Un ritorno in forze del modello Fmi, come quello annunciato da Mauricio Macri in Argentina, il cui gabinetto economico è in gran parte composto da uomini delle imprese multinazionali e rappresentanti del settore privato. Un ritorno in forze degli interessi nordamericani in un paese di punta nelle nuove alleanze solidali del continente.

Un paese enormemente appetibile, che custodisce le più grandi riserve petrolifere del mondo, uno dei 17 con la maggior diversità ecologica, ricco di acqua e risorse naturali: fondamentali per le nuove guerre del terzo millennio.

Fra i primi punti di governo, la Mud ha messo la distruzione di Petrocaribe, l’erogazione di petrolio a basso costo in cambio di prodotti e servizi, organizzato da Caracas con i paesi dei Caraibi. E la cacciata di Nicolas Maduro. Ad annunciare il vento che spirerà di nuovo in Venezuela, è arrivato un gruppo di ex presidenti latinoamericani dal bieco passato, come il boliviano Jorge Quiroga. Verso la fine della giornata elettorale, il Cne ha sospeso le credenziali di Quiroga, che ha pubblicamente chiesto la chiusura tassativa dei seggi alle 18, nonostante la costituzione preveda di continuare a tenerli aperti finché ci sono persone in coda.

Come il manifesto ha potuto constatare intervistando gli «osservatori» invitati dalla Mud, l’alleanza delle destre internazionali ha messo in bocca ai burattini locali un copione preciso, basato su pochi scampoli di propaganda: transizione, libertà di espressione, amnistia per i golpisti in carcere, apertura ai mercati…

Dall’Italia, sono arrivate le felicitazioni della ministra degli Esteri dell’Unione europea Federica Mogherini. Da Cuba, Fidel Castro ha inviato un messaggio di solidarietà a Maduro: «Arriveranno nuove vittorie», ha detto, mentre il boliviano Evo Morales ha invitato tutti a riflettere sull’arroganza di chi non accetta la sovranità dei paesi.

La Mud ha già annunciato le prime misure, a partire dal 5 gennaio, quando prenderà possesso del parlamento: rimozione delle principali cariche dello stato, espulsione dei giornalisti non graditi (e ieri hanno impedito alla Tv di stato di entrare nel comizio post-elettorale), rimozione dei resti di Chavez dal Cuartel de la Montana, correzione del «modello fallimentare».

Un modello che, per produrre cambiamenti strutturali, ha scommesso sul «socialismo umanista»: navigando (controcorrente e spesso a vista) nelle acque infide del capitalismo internazionale, e «dormendo con il nemico in casa».

È finito il laboratorio bolivariano? È finito il ciclo progressista in America latina?

Nel disastro globale di guerre e barbarie, in assenza di un campo prospettico che orienti verso il socialismo le legittime sovranità del nuovo mondo multipolare, non ci sarebbe da stupirsene. Ma la sfida in gioco va al di là di una tornata elettorale, e le forze della trasformazione sono decise a non mollare.

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Il presidente Maduro durante il discorso trasmesso ieri in tv (LaPresse)

«Ha vinto la guerra economica, il capitalismo selvaggio e parassitario – ha detto Nicolas Maduro – e ora si impone un piano controrivoluzionario per smantellare lo stato democratico di giustizia e diritto. Ma noi, con la costituzione in mano, difenderemo il nostro popolo. Non è tempo di piangere, ma di lottare. Consideriamo questa sconfitta come una sberla salutare per svegliarci. Un’occasione per riflettere sugli errori e per uscire dalle catacombe, come i cristiani dopo la morte di Gesù: e per costruire, uniti, nuove vittorie. Abbiamo perso una battaglia. Per adesso». Por ahora, come disse Chavez preparando il ritorno, dopo aver fallito la rivolta civico-militare nel 1992.