Tra i grandi scrittori che più profondamente hanno segnato il cammino della letteratura americana contemporanea, nessuno – in Italia – appare più ignorato o negletto di E.L. Doctorow. Benché Mondadori abbia pubblicato quasi tutte le sue opere e il cinema gli abbia reso omaggio con almeno tre adattamenti firmati da registi di prim’ordine (Sidney Lumet per Daniel, Milos Forman per Ragtime e Robert Benton per Billy Bathgate), chi volesse oggi farsi un’idea della sua opera troverebbe nelle librerie soltanto i bellissimi racconti di Tutto il tempo del mondo e la sua ultima fatica, La coscienza di Andrew (traduzione di Carlo Prosperi, Mondadori, pp. 165, euro 19,00). Eppure, basterebbe la lettura di questi, che sono gli ultimi due libri di un autore oggi quasi ottantacinquenne, per comprendere di trovarsi alla presenza di un autentico maestro, capace di collocarsi, con una sua cifra tanto schiva quanto originale, al centro esatto di quello che è stato il percorso della narrativa statunitense, dal 1960 a oggi.

Sulla sorte critica di Doctorow pesa, ancora oggi, il giudizio assolutamente elogiativo formulato da Fredric Jameson nel suo celeberrimo saggio Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo. Dopo aver elencato, in chiave tutta negativa, le caratteristiche della letteratura postmoderna, cogliendo nella sua tendenza alla superficialità, al citazionismo, alla metanarrazione, al pastiche come sovrapposizione indifferenziata di stili e modi di racconto risalenti a epoche differenti, la manifestazione di un asservimento acritico alle logiche del capitalismo nel suo ultimo stadio, indirizzato a «colonizzare l’immaginario collettivo», Jameson cita proprio i romanzi storici di Doctorow, da Il libro di Daniel a Ragtime e a La fiera mondiale, come esempi di una via di uscita dall’impasse del postmoderno.

In sostanza, secondo Jameson, Doctorow sarebbe forse l’unico romanziere che si è dimostrato capace di realizzare quella «mappatura cognitiva» che appare indispensabile per restituire all’individuo, e in questo caso al lettore, la possibilità di orientarsi nello spazio-tempo frammentato e dissociato del tardo capitalismo: i suoi romanzi storici, pur coincidendo totalmente per forme e tecniche adottate con le maggiori espressioni della narrativa postmoderna, riuscirebbero a superarne strettoie e limiti per via «omeopatica», ossia per mezzo di una somministrazione curativa e attentamente dosata del «veleno metanarrativo».

C’è molto di vero, nelle affermazioni di Jameson: leggere i romanzi maggiori di Doctorow, da Ragtime a La fiera mondiale, da L’acquedotto di New York a La marcia, fino a quella grande metafora dell’accumulazione e dispersione capitalistica che è Homer e Langley, equivale ad avventurarsi in un universo narrativo nel quale i grandi eventi pubblici e privati sono sempre e comunque filtrati dalle rappresentazioni che ne sono state fornite. Al punto che è impossibile e non più ipotizzabile risalire a quella che dovrebbe essere la verità ultimativa dei fatti, e tutto quel che ci rimane sono versioni parziali, filtrate ora dalla coscienza collettiva dell’arte e della cultura, ora da quella individuale, idiosincratica e spesso frantumata dei personaggi.

Se Ragtime era l’esempio perfetto di un racconto storico che assimila e riproduce gli stilemi e i modelli narrativi e interpretativi di un’intera civiltà, La coscienza di Andrew si presenta come narrazione nella quale la realtà è ridotta a un succedersi di frammenti sconnessi, articolati e filtrati da un’unica voce narrante, ondivaga e inaffidabile.

Andrew’s Brain è il titolo originale del libro, e Il cervello di Andrew avrebbe dovuto intitolarsi la sua versione italiana. Parlare di coscienza equivale infatti a tradire il senso ultimo del libro, dando per presupposta o comunque per acquisita una consapevolezza degli accadimenti che il protagonista trascorre l’intero romanzo a inseguire, senza mai appropriarsene fino in fondo e senza riuscire a organizzare le proprie esperienze in un insieme coerente.

Il problema di Andrew, ovverosia del soggetto che cerca, per tutto il romanzo, di raccontare la sua storia e la sua verità a un interlocutore che interviene di tanto in tanto con domande o laconiche osservazioni, e che potrebbe essere tanto uno psichiatra quanto un uomo della Cia o della Nsa, sta nel fatto che ha un’unica consapevolezza: quella di essere sempre a un passo dall’impostura. Nel descrivere una gita in montagna insieme a Briony, la studentessa della quale si è – o si dice – innamorato, il protagonista commenta: «Non puoi immaginare cos’era avere lei lì senza dimenticare neanche per un istante la mia inettitudine omicida. Che nell’estasi della felicità sarei stato massimamente pericoloso. Il dovermi concentrare momento dopo momento, esaminare le mie azioni, tutto ciò che facevo, vivere nell’attenzione alle minuzie, tenermi d’occhio ogni minuto della giornata, controllando con zelo ritualistico tutto ciò che facevo pur di non trasformarmi in Andrew l’Impostore». Un rischio, questo, che non riguarda solo il vissuto di Andrew, per come veniamo progressivamente a conoscerlo, ma il suo stesso modo di raccontarlo: ora in terza persona, come se si riferisse a qualcun altro, ora in prima, e alternando registri e toni tra il tragico, il grottesco, la comicità pura, la divagazione (pseudo)scientifica, il sarcasmo più doloroso.

Due domande, inevitabilmente, si alternano nella mente del lettore: chi è Andrew? E che cosa gli è successo veramente? E altre se ne aggiungono: dove si trova mentre racconta? Chi è veramente il suo interlocutore, ammesso e non concesso che esista? Gli elementi per provare a formulare una risposta non mancano: Andrew ha studiato e insegnato neurobiologia (si autodefinisce «scienziato cognitivo»); si è sposato una prima volta con Martha e ha avuto una figlia, morta; si è risposato con Briony e l’ha persa durante gli attentati dell’11 settembre; ha affidato la seconda figlia, avuta con Briony, a Martha e al marito, un ex cantante lirico ubriacone e manesco; si è ritrovato a lavorare a Washington perché il Presidente degli Stati Uniti, suo ex compagno di stanza a Yale, gli ha affidato l’incarico di direttore del sedicente Ufficio di Documentazione Neurologica della Casa Bianca. È entrato in conflitto con i due collaboratori più stretti del Presidente, Cenerotto e Rumfellone (nomignoli dietro cui si nascondono – in piena vista – i due falchi dell’amministrazione Bush, Ashcroft e Rumsfeld) e ha finito per farsi cacciare, con la fama ignominiosa del piantagrane e del pericolo pubblico.

Tutti questi elementi non sono però ricavabili da una narrazione lineare. In scena c’è il cervello di Andrew, che procede per accensioni neuronali e corti circuiti sinaptici, senza che da tanto lavorio emerga mai una coscienza in grado di farsi centro ordinatore. Eppure, il fatto che le storie o i frammenti di storie consegnatici dalla voce narrante siano altrettanti lampi, brevi coaguli di senso in un mare confuso di ricordi, li rende se possibile ancor più dolorosi e intensi, ironici e appassionati.

Che dialoghi con se stesso o con un vero interlocutore; che sia un folle o un savio, un impostore o una vittima, Andrew prende possesso della scena, la invade, ci costringe a seguirlo nelle sue peregrinazioni fisiche e mentali: finché non ci ritroviamo costretti a cercare noi di tradurre in sequenze di senso compiuto quel confuso guazzabuglio che sono le sue memorie. Un’impresa impossibile, forse votata al fallimento: ma anche un viaggio tragicomico che, per interposta persona e dentro le pagine di un libro smilzo, denso e nero come l’inchiostro, ci porta nel cuore dell’America prima e dopo l’11 settembre. Per affidarci ancora alle parole di Andrew, questo romanzo parla «di un’integrità svuotata dall’interno», ridotta a «un cinema buio dove sta per iniziare un altro film muto dell’orrore». Una massa confusa di sogni e ricordi che la scienza non può riscattare, o non ancora: la massa di una vita che «è ancora solo dolore».