Sembra impossibile da ricordare in questa rovente estate post-convention, ma solo pochi mesi fa, all’inizio della stagione elettorale americana, i giochi sembravamo già fatti. Al termine di due mandati Obama, un Gop votato all’immobilismo e a otto anni di testardo sabotaggio dell’odiato presidente, si affacciava alle primarie con ben diciassette improbabili pretendenti. I democratici erano uniti dietro una candidata potente e ricca, supportata da una invidiabile rete di finanziamenti e avvolta da un aria di predestinazione. Sembrava insomma solo questione di mesi prima dell’implosione di un partito repubblicano fratturato e l’annunciato trionfo di Hillary Clinton. Il resto come si dice è storia – o almeno i lavori in corso di una storia ancora senza epilogo ma che ha probabilmente già cambiato per sempre i connotati della democrazia americana a e di riflesso quella mondiale. Alla meteorica ascesa di Donald Trump e le concentriche scosse telluriche che ha provocato intorno al panorama politico mediatico e sociologico americano, Andrew Spannaus dedica il suo tempestivo pamphlet Perché vince Trump (Mimesis, pp. 106 , euro 10).

Demagogia e verità
La annunciata catastrofe repubblicana effettivamente c’è stata, ma in termini che nessuno avrebbe potuto prevedere. Il partito di Lincoln, di Nixon e Reagan, il polo storico del conservatorismo americano, è stato oggetto di un vero e proprio hostile takeover populista. Le primarie del 2016 hanno offerto il singolare spettacolo di un ultracorpo che si è aggiudicato la nomination di un partito che ha tentato di tutto per espellerlo. Gli evangelici teocon, i neocoservatori di corrente Bush-Cheney, gli ideologi facenti capo alla National Review di William F Buckley, i libertarian di Ron e Rand Paul e l’establishment vicino a Wall Street, tutti hanno inizialmente tentato di sbarrare la strada al magnate e reality star di New York.

Ma come scrive accuratamente Spannaus: «Trump se n’è infischiato del sostegno dell’establishment (…). Si è rivolto alla base, alla classe media americana che si sente esclusa dal mondo della politica». Quella stessa base che per decenni era stata strumentalizzata da una classe politica che ha esacerbato le divisioni e la fiele per trasformarla in voti. Il livore prevalentemente dei maschi bianchi è stato fomentato in successive crociate ideologiche – le cosiddette culture wars – contro gli immigrati, l’aborto, il matrimonio gay, i radical chic e gli scrocconi del welfare – salvo poi dimenticarsi dei fedeli alla linea e tornare a curare gli interessi tradizionali dei poteri forti di Washington e Wall Street.

Trump ha fatto anche lui leva sul groviglio di rancori e risentimenti di una popolazione bianca in procinto di diventare minoranza (demografica, politica, culturale) sfruttandone la paranoia con appelli «in codice» agli impulsi nostalgici ed egemonici (la sua candidatura ha dato spazio a forze a lungo sommerse – gruppi razzisti e suprematisti hanno visto moltiplicare il traffico sui loro siti). Ma in modo più trasversale, Trump ha dato soprattutto voce alle giustificate recriminazioni di una classe blue collar e «middle class» esautorata dalla globalizzazione capitalista, penalizzata dall’economia e dal divario sociale sempre più abissale.

SARASOTA - NOV 28: United States presidential candidate Donald Trump campaigns at the Robarts Arena on Saturday, November 28, 2015, in Sarasota, Florida. (Photo by Landon Nordeman)

Cecità di sinistra
È la stessa dinamica di rudimentale rivalsa di classe che caratterizza fenomeni speculari in atto in Europa e che, all’indomani della Brexit, ha spedito il miliardario «ribelle» in Scozia a inneggiare alla «liberazione» dell’Inghilterra.
D’altronde l’emancipazione degli di stati sovrani dalle forze del globalismo è un tematica che serpeggia da tempo nella nuova destra, la cosiddetta Alt Right, su entrambe le sponde dell’Atlantico; Trump se n’è fatto interprete popolare. «Si può discutere dei pro e dei contro di aspetti particolari della trasformazione avvenuta, dalla nascita di nuovi mercati e tecnologie alla crescita dei servizi di alto livello – scrive giustamente Spannaus – ma non si può negare che in tutto questo la classe lavoratrice come esisteva nel periodo del dopoguerra ha infine pagato buona parte del conto» . E ancora: «Per anni gli effetti negativi del processo di de-industrializzazione della economia americana sono stati camuffati dalla grande crescita della finanza. La bolla dei mutui subprime non va vista come un evento in sé, ma appunto come parte di questo processo più lungo di finanziarizzazione».

L’ascesa di Trump è in parte legata alla colossale truffa dei derivati perpetrata dall’oligarchia finanziaria ai danni di poveri e lavoratori, abbandonati a un mondo di sottolavoro, potere d’acquisto in declino, stagnazione dei redditi e crescita della diseguaglianza. La demagogia dell’antiglobalismo «di destra» che esprime contiene, insomma, una dose di verità. (Obama è per il Ttp, la politica dell’inclusione del partito democratico è anche quella della globalizzazione e dell’interventismo militare, ecc.) E il suo successo rappresenta così anche l’incapacità della sinistra istituzionale di articolare una critica politica efficace alla dittatura finanziaria. Come la risposta nazional populista alla crisi della sovranità in Europa, il trumpismo rappresenta la reazione contro un blando riformismo «di sistema» che dal punto di vista dei ceti ex-manifatturieri incarna unicamente gli interessi delle élite urbane. E con l’uscita di scena di Bernie Sanders Trump è rimasto il solo ad articolare una critica «radicale», pur se strumentale, al sistema. Nelle parole di un ex metalmeccanico intervistato in Ohio: «Lo so che le acciaierie qui non riapriranno e che i nostri posti di lavoro sono spariti per sempre. Ma Trump almeno lo dice».

L’universo trumpista racchiude, come si è visto nella coreografia della convention, una rappresentazione manichea, facilmente digeribile del neolibersimo globale: la Cina e il Messico che rubano lavoro agli Americani; le élite politiche chiuse nei loro palazzi di vetro che si beffano del lumpen comune di cui deridono la fede e la tradizione, mentre accolgono con falso buonismo le orde scure di tutto il mondo. L’atto di enunciare questa narrazione «politicamente scorretta» ha avuto una prorompente forza catartica in una consistente fetta di elettorato.

Il risveglio dei giganti
C’è molto in questa osservazione: aiuta a spiegare come Trump abbia preso in contropiede l’establishment politico di entrambi i partiti. E la sua ascesa contiene anche l’eterno paradosso americano di un proletariato che vota regolarmente contro i propri interessi: l’assistenza sanitaria pubblica, ad esempio, o in genere «programmi di governo», nel nome di una mitologia emotiva di «libertà» ed eccezionalismo.
Misto alla misoginia e al razzismo, «l’americanismo» trumpista esprime l’ira funesta contro il sistema «tarato». E può spiegare in parte come ampi settori delle classi esautorate abbiano deciso paradossalmente di affidare la propria rivalsa contro le nuove oligarchie ad un oligarca. Un miliardario, sì, ma apparentemente disposto a stracciare il galateo dell’ordine costituito.

Allora, vincerà Trump? La realtà è che questa, incredibilmente, è oggi una possibilità concreta. Trump ha risvegliato un «gigante dormiente» e per contrastarlo Hillary ha cento giorni per ricostituire gli elementi base della Obama coalition –per portare alle urne, neri, ispanici, donne, giovani – e a questo punto Americani antifascisti – in numeri sufficienti da arginare la marea. Nelle parole di Ian Masters, la domanda che circola insistente qui in questa estate torrida è: esiste oggi in America una maggioranza di persone ragionevoli, razionali, istruite e decenti che possa tenere Trump lontano dalla Casa Bianca?. La risposta dirà molto sul futuro delle democrazie occidentali.