Sigonella, Tripoli, Damasco collegate da un filo, quello della lotta allo Stato Islamico che camuffa interessi strategici ben più radicati. Mentre in Siria il “califfato” compiva la peggior carneficina dal 2011 e mentre Mosca e Washington pubblicizzavano l’ennesimo accordo di tregua, sotto i riflettori torna la Libia e gli stretti legami tra il nostro paese e l’alleato Usa: a gennaio, dopo un anno di negoziati, il governo italiano – in passato redarguito dalla Casa Bianca per gli scarsi sforzi anti-Isis – ha dato l’ok al decollo di droni armati Usa dalla base aerea di Sigonella per missioni contro Daesh in Libia e nel Nord Africa.

A renderlo noto sono fonti americane citate dal Wall Street Journal: i droni potranno partire dall’Italia per «missioni difensive», seppur l’amministrazione Obama starebbe ancora tentando di persuadere Roma ad autorizzare anche operazioni offensive, sullo stile di quella di venerdì scorso a Sabratha, nel nordovest della Libia, in cui oltre a 30 islamisti sono stati uccisi anche due ostaggi serbi, scatenando le proteste di Belgrado.

Resta da capire cosa significhi azione di difesa. Dietro si celano le ambizioni belliche occidentali in Libia, che si potrebbero tradurre – aggiunge il Wsj – nell’apertura di una base anche lungo le coste nordafricane.

Eppure l’Isis pare dipinto come acerrimo nemico a seconda del paese in cui colpisce e degli interessi internazionali che tocca. In Siria lo è di meno, nonostante domenica abbia compiuto un massacro senza precedenti. Auto e minibus in fiamme, vetrate in frantumi, palazzi sventrati, soccorritori che portano via i corpi e scavano tra le macerie sperando che qualcuno possa salvarsi. E il numero dei morti che continua, dolorosamente, a salire: 179 in poche ore, con la capitale del paese Damasco e quella della “rivoluzione” Homs accumunate dallo stesso destino.

A colpire sono state 4 autobombe, esplose nei quartieri sciiti o in quelli simbolo del potere governativo: a Damasco nel mirino – a meno di un mese di distanza da un precedente attentato, in cui morirono 71 civili – è tornato il mausoleo di Sayyida Zeinab, sito sciita tra i più visitati perché tomba della nipote di Maometto e figlia del quarto califfo Ali. Le vittime sono almeno 120. Tra loro almeno 90 civili, gli altri erano membri delle forze di polizia che – con miliziani iraniani e libanesi – si occupano di garantire la sicurezza intorno al mausoleo.

Ma di sicurezza in Siria non ce n’è: l’Isis si muove con rapidità, in ogni angolo del paese. Colpisce a Damasco, come colpisce ad Homs, una città che sperava nella pace dopo l’accordo siglato alla fine del 2015 tra governo e opposizioni. Autobombe sono esplose anche lì, nel distretto di al-Zahraa, a maggioranza alawita, massacrando 59 persone.

Quanto vale la vita di un siriano? Sembra dipendere da chi gliela toglie. Se la mano è l’Isis e non Damasco, lo sdegno si stempera. Eppure lo Stato Islamico, che con le sue bombe ricorda di esserci ancora, è la principale minaccia al popolo siriano. Ma la comunità internazionale non ci fa caso.

E così poche ore dopo le due stragi, i miliziani islamisti lanciavano la propria controffensiva su Shaddadi, città della provincia nord orientale di Hasakah (sulla direttrice Raqqa-Mosul), appena liberata dalle forze kurde e arabe del Syrian Democratic Forces, quelle che vengono bombardate dall’alleato dell’Occidente, la Turchia.

Il rischio di Shaddadi di tornare in mano islamista è indicativo dell’attuale volontà internazionale intorno alla Siria. Isis e al-Nusra sembrano problemi di secondo piano. E, come un cavallo con i paraocchi, le super potenze avanzano continuando a discutere di un cessate il fuoco senza basi. Domenica il ministro degli Esteri russo Lavrov e il segretario di Stato Usa Kerry hanno discusso di un nuovo accordo per la cessazione delle ostilità.

E ieri il piano di tregua è stato raggiunto: Washington e Mosca hanno preparato una bozza per la fine delle ostilità a partire da sabato 27 febbraio. Ora il piano dovrà essere accettato e firmato dalle tutte le parti coinvolte. Ovviamente i due gruppi jihadisti non ne saranno parte, condizione che permette sia a Russia che Usa di proseguire nei raid.

Ieri il ministro degli Esteri di Mosca, però, denunciava i massacri di Homs e Damasco, considerandoli volti a «sovvertire i tentativi» di raggiungere un accordo politico. Una sottile accusa a chi è considerato da anni sostenitore indiretto degli islamisti, ovvero la Turchia? Mosca misura le parole consapevole dalla volatilità del dialogo diplomatico, intorno al quale prevalgono le incognite.

L’accordo di Monaco non si distanzia da quello attuale, ma era comunque fallito per l’incapacità di imporre la tregua ai gruppi armati di entrambe le parti. A partire proprio dalla Turchia che insiste sulla campagna anti-kurda: sabato il presidente Erdogan ha parlato di «diritto turco a lanciare qualsiasi tipo di operazione, in Siria o ovunque si trovino le organizzazioni terrostiche».

Reazioni all’accordo del tandem Cremlino-Casa Bianca è arrivata a stretto giro sia dal campo delle opposizioni che da quello governativo. L’Alto Comitato per i Negoziati (Hnc), riunito ieri a Riyadh per discutere della proposta, ha fatto sapere di averla accettata «in via di principio». Ma ribadisce le consuete precondizioni: stop alle operazioni militari da parte della Russia e dei gruppi alleati, liberazione dei prigionieri e fine degli assedi governativi.

Sul lato di Damasco interviene per ora solo il parlamentare Omar Osso, ribadendo il diritto del governo a combattere i gruppi estremisti e dicendosi «pessimista sulla fine degli scontri perché abbiamo a che fare con criminali che hanno degli Stati come sponsor».

A parlare era stato domenica il presidente Assad: «Abbiamo detto che siamo pronti a interrompere le operazioni militari – ha detto in un’intervista al quotidiano spagnolo El Pais – ma questo si lega a fattori importanti, come impedire ai terroristi di usare questo stop per migliorare la propria posizione». Ovvero, ricevere rinforzi militari dagli alleati regionali, armi e uomini, come sta accadendo in questi giorni: sarebbero 2mila i miliziani delle opposizioni che hanno attraversato o stanno per attraversare il confine turco-siriano, coperti dalle forze armate di Ankara.