Nel giorno in cui la maggioranza silenziosa scozzese ha fatto sentire il suo peso nelle urne, passata l’euforia per il salvataggio in extremis dell’Unione, raggiungiamo Donald Sassoon, professore emerito di storia europea comparata presso il Queen Mary College dell’università di Londra e autore del recente Quo Vadis Europa, edito da Castelvecchi.

Professore, la citazione del giorno è «bitter together», a evidenziare che la crisi del settecentesimo anno sarà anche passata, ma questo matrimonio resta travagliato…

Non male la battuta, e niente affatto fuori luogo. Ma le ripercussioni ora sono più in Inghilterra che non in Scozia. Se nel referendum fosse stata inserita la domanda sulla devo-max, avrebbero tutti votato per quella. Sulla scia del panico per i sondaggi, i tre leader (Cameron, Miliband e Clegg, ndr) avevano promesso un incremento dei poteri per Edinburgo pur di ridimensionare i «sì» e ora dovranno mantenere la promessa. In questo momento a Westminster ci sono circa una sessantina di deputati scozzesi ripartiti più o meno come segue: i liberali sono 11, i nazionalisti 6, i laburisti 40 e i conservatori sono… uno. Ora, è inimmaginabile che questi sessanta deputati scozzesi continuino ad avere potere decisionale su interessi specificamente inglesi come le tasse quando, com’è noto, Westminster non ha le stesse prerogative in Scozia. Bisognerà trovare una via di mezzo, evitando lo squilibrio. Ma questo danneggerebbe i laburisti inglesi: se vincessero le elezioni grazie anche ai 40 deputati scozzesi e poi costoro venissero “istituzionalmente” meno, come farebbe a governare?

Questo spiega l’atteggiamento in parte distaccato dei conservatori rispetto alla questione indipendenza.

Il motivo per cui i Tories erano un po’ schizofrenici è che da un lato a loro conviene che gli scozzesi non esistano nella Camera dei Comuni perché loro stessi non esistono in Scozia: un po’ come se la destra in Italia potesse fare a meno di Toscana ed Emilia. Per questo la devo-max è una minaccia enorme per un futuro governo Labour.

Quella dell’Unione è dunque una vittoria di Pirro?

È una situazione strana. Salmond è sconfitto e con lui almeno per una generazione l’idea d’indipendenza. D’altro canto, ha ottenuto il massimo che potesse sperare. Prendiamo la formula Barnett, che prende il nome dall’omonimo Lord laburista che la concepì negli tardi anni Settanta: stabilisce la spesa pubblica pro capite per Scozia, Irlanda del Nord e Galles. È controversa perché per la Scozia è circa del 20% più alta che per Inghilterra. Ora la Scozia non si può definire convenzionalmente povera. Di certo lo è meno di Galles e Nord Irlanda. È chiaro che i Tories a destra di Cameron cercheranno di abrogarla. Né vorranno più che i deputati scozzesi interferiscano negli affari inglesi. Ma il guaio più grosso sarà per i laburisti, che rischiano di perdere ben 40 deputati in una loro possibile futura maggioranza. Tenendo conto che Cameron ha anche promesso un referendum sull’Europa nel 2017, qualora rivinca le elezioni, siamo alle porte di una grossa crisi costituzionale.

In un Paese che non ha costituzione.

Non avendo una costituzione scritta si può fare di tutto. La si stabilisce facendola man mano.

E la decisione di omettere il quesito stesso sulla devo-max nella formulazione originaria del referendum?

Salmond era pessimista, pensava di perderlo, com’è poi stato. Dunque la sua idea era provare almeno a portare a casa un ampliamento della devoluzione, giacché era chiaro che tutti avrebbero votato perché la Scozia ottenesse almeno maggiori poteri. Per questo Cameron ha voluto evitare di includerlo. Ma i sondaggi hanno aumentato il panico. Ora che la coalizione e il Labour si sono in parte rassicurati, faranno di tutto per ridimensionare le promesse fatte. Resta il problema che la Scozia ora ha un parlamento, ha un governo, ha tutte le prerogative istituzionali di uno Stato sovrano, mentre l’Inghilterra non le ha. È un assurdo istituzionale che non esiste altrove.

Il premier scozzere Salmond
Il premier scozzere Salmond