Il giorno dopo tutti gli attori del caso Regeni reagiscono alle parole della famiglia al Parlamento Europeo. Reazioni ancora blande ma figlie della pressione che la battaglia di Paola e Claudio Regeni riesce ad esercitare.

Prima di tutto sul Cairo: ieri la Commissione Esteri della Camera egiziana «si è riunita d’urgenza per discutere degli ultimi sviluppi sul caso Regeni all’indomani della seduta al Parlamento Europeo», si legge nella nota pubblicata sull’agenzia stampa Mena. La nota dice poco ma qualcosa emerge: a mettere fretta ai vertici del Cairo sarebbe stata l’erronea convinzione che l’Unione Europea volesse inviare in Egitto una sua missione d’inchiesta.

Così non è: l’idea di mandare un team investigativo era emersa come proposta dai banchi del Parlamento, richiesta di un deputato, ma non come misura assunta dalla Ue. La Commissione Esteri, si legge infatti nella nota, si è riunita per trattare «della decisione presa dal Parlamento Ue di inviare una commissione che faccia luce sull’omicidio».

All’Agenzia Nova Mohamed al-Orabi, ex ministro degli Esteri e presidente della Commissione, smentisce: la notizia è stata mal interpretata dai media egiziani. E aggiunge: la Commissione Esteri «non è autorizzata a seguire gli sviluppi dell’indagine», ma può premere per una collaborazione con Roma.

Il problema resta il livello di pressioni che gli alleati europei del presidente al-Sisi intendono esercitare. Se la famiglia Regeni chiede a gran voce l’isolamento dell’Egitto, all’orizzonte non c’è nulla. Basta guardare al governo di Roma: il titolare della Farnesina, Gentiloni, ieri si è limitato ad escludere l’invio a breve (paventato una settimana fa dal portavoce del Ministero degli Esteri, Ahmed Abu Zeid) del nuovo ambasciatore Cantini nella capitale egiziana. «Il governo ha richiamato l’ambasciatore circa due mesi fa e questa decisione non è cambiata», ha detto il ministro degli Esteri rispondendo ad una specifica domanda.

E se dall’Europa il sostegno è minimo, con lady Pesc Federica Mogherini che alla mamma di Giulio garantisce che solleverà la questione con il ministro degli Esteri egiziano Shoukry, neppure dall’Università di Cambridge arriva molto. Ieri, però, un’iniziativa è stata presa: la professoressa Maha Abdulrahman, tutor di Giulio nella ricerca che stava svolgendo sui sindacati egiziani, ha inviato alla procura di Roma alcune e-mail. Secondo fonti interne, conterrebbero alcuni degli elementi per cui gli inquirenti italiani avevano mosso una rogatoria europea ed erano volati in Gran Bretagna senza successo.

Ma, aggiungono le fonti di Piazzale Clodio, non è abbastanza: le dichiarazioni scritte di Abdulrahman «non aiutano a superare gli elementi di contraddizione tra quanto detto dalla stessa teste in Italia il giorno dei funerali di Regeni e le altre risultanze investigative emerse successivamente dall’esame del pc di Giulio e dal contenuto di alcune sue mail». Secondo indiscrezioni, in una delle mail la tutor avrebbe definito «l’Egitto paese sicuro» perché così – avrebbe spiegato la ricercatrice – considerato dal Ministero degli Esteri britannico. I buchi restano, ogni passo avanti sono due passi indietro. Succede con la collaborazione millantata dal Cairo, che si dimostra sempre lacunosa quando non chiaramente sviante, e succede oggi con Cambridge.

A Valigia Blu l’ateneo dà la sua versione dei fatti: «L’Università di Cambridge non si è mai rifiutata di collaborare con le autorità italiane e non ha ricevuto alcuna richiesta di informazione – dice Paul Hammond, responsabile dell’Ufficio Comunicazione in una e-mail inviata al blog – L’Università è pronta a rispondere rapidamente a qualsiasi richiesta proveniente dalle autorità italiane». Hammond spiega che la professoressa era stata avvicinata a Fiumicello durante i funerali e che la richiesta di informazioni le era stata inoltrata dalla polizia. Poi, più nulla, secondo Cambridge.

Nel caos di voci e smentite la verità resta lontana. I riflettori si spengono anche sulla repressione che in Egitto non ha mai smesso di soffocare la società civile. Provano a tenere alta l’attenzione dieci organizzazioni egiziane che in questi giorni, quelli del secondo anniversario della vittoria alle elezioni presidenziali di al-Sisi, lanciano una campagna nazionale a favore dei prigionieri politici. Che, dicono, il nuovo regime ha moltiplicato.

Si moltiplicano anche le voci di un rimpasto di governo, il secondo in pochi mesi. Anche stavolta, secondo i media egiziani, il potente ministro degli Interni Ghaffar si salverebbe. A cambiare potrebbero essere i titolari dei dicasteri “economici”, a causa della perdurante crisi e l’elevata inflazione che accendono le proteste popolari.