Ore decisive per le sorti di Yahya Jammeh, recalcitrante presidente «uscente» del Gambia, che ieri, alla fine di una giornata convulsa, con l’esercito senegalese praticamente alle porte e il suo che se ne lavava le mani, ha infine deciso di cedere alla valanga di pressioni internazionali e di lasciare – forse è già accaduto nella notte – il palazzo presidenziale. E possibilmente il paese, in modo da sfuggire ad eventuali ma prevedibili incriminazioni, visto che durante i 22 anni in cui è stato al potere – dopo un colpo di stato «incruento» – non ha lesinato il pugno di ferro nel trattare oppositori e libertà civili.

 

Yahya Jammeh, con l'inseparabile bastoncino e copia del Corano d'ordinanza, al momento del voto
Il “pio” Yahya Jammeh, in bianco come sempre, con l’inseparabile bastone e copia del Corano d’ordinanza, al momento del voto lo scorso 1 dicembre

 

Al termine del suo quinto mandato era ragionevolmente sicuro di avere in tasca il sesto, invece dal voto del 1 dicembre è uscito a sorpresa Adama Barrow, un ricco imprenditore a digiuno di politica ma sostenuto da sette partiti dell’opposizione. Ancor più a sorpresa Jammeh aveva accettato la sconfitta, ma poco dopo ci ripensava per presunte irregolarità commesse in alcuni seggi. Si era messo in testa di restare al potere per altri tre mesi, con il placet subito ottenuto del parlamento. Intanto, intorno a lui, il mondo come lui lo aveva conosciuto stava crollando.

Nel giorno previsto, giovedì scorso, Adama Barrow – che ieri ha dato pre primo via Twitter l’annuncio della «resa» di Jammeh – ha giurato ugualmente come nuovo presidente, avendo in tasca il riconoscimento unanime della comunità internazionale. Ma lo ha fatto a Dakar, nell’ambasciata del Gambia in Senegal. Anche perché Jammeh nel frattempo a Banjul aveva dichiarato lo stato d’emergenza.

Intanto il Consiglio di sicurezza dell’Onu esprimeva «sostegno agli sforzi» delle nazioni Ecowas, la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale, per «garantire, con strumenti politici prima, il rispetto del volere del popolo». Avendo già il Senegal ammassato truppe alla frontiera, avendo la Nigeria e in misura minore Togo, Ghana e Mali promesso di dar man forte, incassato il «sostegno dell’Onu» è scattata subito una mezza invasione condita da due ultimatum.

Da ieri infatti l’avanguardia del contingente militare preannunciato si trovava già in territorio gambiano, poco oltre il confine, mentre il grosso si attestava poco prima con mezzi blindati e armi pesanti. Contemporaneamente, alla voce «strumenti politici prima», Ecowas inviava a Banjul il presidente della Guinea Alpha Condé. Un tentativo estremo, l’ultimo di una discreta serie che hanno impegnato vari leader regionali, di convincere Jammeh. I due ultimatum posti nel corso della giornata scadevano senza esito. Poi, in serata la svolta, con le strade della capitale che si riempivano di gente in festa dopo il vuoto spettrale degli ultimi giorni.

Ecowas si era detta pronta a mettere in campo 7 mila uomini, numero spropositato di fronte ai 2mila scarsi che conta l’esercito del Gambia, minuscolo paese incapsulato nel territorio senegalese; e soprattutto rispetto alla volontà zero dei militari gambiani, ad esclusione dei soliti commandos scelti della guardia presidenziale, di mettersi di traverso.