Tra le tante rassegne mirate a valutare gli innumerevoli lavori sugli effetti della cannabis, spesso con risultati contrastanti, merita attenzione un lavoro recente apparso su Jama Psychiatry (doi:10.1001/jamapsychiatry.2015.3278). Infatti il primo autore è Nora Volkow, la direttrice dell’Istituto nazionale per l’abuso di droghe (Nida), uno degli Istituti nazionali per la salute degli Usa (NIH). Quindi è probabile che le posizioni espresse nel lavoro abbiano un peso particolarmente rilevante sotto il doppio profilo scientifico e politico.

A prima vista il pezzo non promette bene, esprimendo forti preoccupazioni per le conseguenze del dilagare della cannabis medica e delle iniziative di legalizzazione della cannabis ricreativa. Ma poi il tono inizia a smorzarsi: affermato che gli effetti neuropsicologici acuti possono essere notevoli, «… è meno chiaro se l’uso di cannabis si associ a un deterioramento neuropsicologico duraturo». Notoriamente una associazione spesso si produce con meccanismi diversi dal rapporto causa-effetto: quindi, se le parole sono importanti, la combinazione tra il «meno chiaro» e il «si associ» significa che non vi sono prove affidabili del «deterioramento neuropsicologico duraturo». E in proposito vengono citate due metanalisi, la prima a favore di un danno, la seconda, invece, riguardante lavori su soggetti con almeno un mese di astinenza dal consumo, senza alcuna differenza tra consumatori e non consumatori.

Segue una tirata sulla vulnerabilità degli adolescenti in rapporto ai processi di maturazione cerebrale, seguita tuttavia dalla menzione di dati contrastanti di varie indagini di neuroimaging: cioè alcune mostrerebbero alterazioni cerebrali, altre invece no; ed è significativo il fatto che tra queste seconde se ne trovi una che ha tenuto nel dovuto conto gli effetti dell’assunzione concomitante di alcol. Inoltre, prosegue il testo, le migliori o peggiori prestazioni neuropsicologiche (cognitive, di memoria, ecc.) potrebbero riflettere differenze interindividuali prodotte da cause di varia natura, precedenti il consumo di cannabis: cioè sarebbero set e setting a modulare propensione e modalità di consumo della sostanza, il che accredita l’ipotesi di una causazione inversa tra uso di cannabis e qualità delle prestazioni neuropsicologiche. Per giunta, in molti studi è elevata la proporzione di utilizzatori pesanti, quindi poco si può dire sulle conseguenze di un consumo moderato.

Infine, dopo aver sostenuto la causa della psicopatogenicità della cannabis, il testo fa un mezzo passo indietro: cioè nota che la presenza di una fase prodromica precedente la psicosi dichiarata non consente di escludere che una parte dei soggetti ricorra all’uso di cannabis come automedicazione (altra eventualità di causazione inversa). Del resto il messaggio che un consumo pesante iniziato in età precoce possa produrre danni è più che ragionevole; anzi, pare fatto apposta per sostenere la causa di una legalizzazione controllata, atta a sostituirsi almeno in parte a un mercato nero libero e selvaggio, come quello che prevale oggi.

Il pezzo si conclude con un’enfasi sulla gravità del danno provocato da droghe lecite come il tabacco e l’alcol, e con un’aspra critica del ruolo dominante assegnato dalla War on drugs alla repressione e alla giustizia penale. Insomma, pur con le dovute riserve sulle ambiguità di una presa di posizione per alcuni aspetti «cerchiobottista», par di intravedere una cauta apertura degli scienziati del governo americano a una diversa politica delle droghe; compresa una presa di distanza dalla quasi secolare demonizzazione del consumo moderato di cannabis.