Città della ghisa, fin dal tempo dei Lorena, Follonica sfoggia da un anno un polo di aggregazione e formazione culturali di livello europeo. Il recupero da parte del Comune della grande area ex Ilva, dismessa nel 1960, ha prodotto infatti, dopo sette anni di lavoro, un sistema integrato di spazi e superfici in cui dove si affiancano sale prove, laboratori e convegni, percorsi espositivi, un museo, servizi, foyer, caffetteria, arena estiva e un teatro, il Fonderia Leopolda.

 

 

Confortevole, elegante, 400 posti di ottima acustica e visibilità: l’archeologia industriale riconvertita al servizio della città. Che ha risposto con entusiasmo (un esaurito dopo l’altro) alla prima stagione, appena conclusa, impaginata da Eugenio Allegri. Qui è approdata La stanza del tramonto, testo a due voci di Lina Prosa, regiadi Giorgio Zorcù con Sara Donzelli e Giampaolo Gotti.

 
Due fratelli che da tempo si sono persi di vista si ritrovano davanti a un muro. Devono riprendere la madre che esce dall’ospedale. Inscenano una perversa, nervosa drammaturgia del «recupero». Infantile e minacciosa. Ricatti e ripicche. Ognuno la vorrebbe tutta per sé, appropriarsi di quel che ne resta: la malattia, l’agonia, la fine stessa diventano un privilegio, un bene prezioso, un ultimo conato di riconoscenza. Forse un viaggio, una via di fuga. Ma l’attesa non si compie. La parete indietreggia e si spalanca una nuova prigione, vecchia oasi familiare. Gioiosa e allucinata.

 
Un anno è passato, la madre è morta, fratello e sorella ritrovano antiche consuetudini, un’altalena che oscilla, una nudità che rivela complicità incestuose, il gioco dell’innocenza che profuma di borotalco e sconfina nel travestitismo. Ai dialoghi di Lina Prosa, voci di dentro inquiete e intermittenti, la regia di Zorcù, sostenuta dalle scene di Muta Imago e dalla emotiva presenza degli interpreti, restituisce, dopo l’allarmismo iniziale, un alto grado di gustosa visionarietà.