A chi storceva la bocca per le scene convenzionali e di maniera di Salvate il soldato Ryan, Steven Spielberg replicò candidamente che aveva accettato il progetto con il principale obiettivo di descrivere realisticamente, come nessuno aveva osato prima, lo sbarco in Normandia, che occupa i venti minuti iniziali del film e lascia francamente senza fiato. In pratica, il film fu un mero pretesto per girare quel conturbante incipit. Dall’autobiografia che Dino Zoff ha scritto con la collaborazione di Marco Mensurati (Dura solo un attimo, la gloria, Mondatori, 2014), si ricava più o meno la stessa impressione. Il più decorato portiere della storia patria si è dedicato al racconto della sua lunga parabola di sportivo con lo scopo precipuo (raggiunto fin nei capitoli iniziali) di illustrare i suoi riferimenti valoriali e di  rendere il giusto omaggio alle profonde radici contadine, a un padre taciturno e rigido ma decisivo nella sua formazione di uomo, a una nonna amorevole ed energica, e a una madre discreta ma cruciale nell’equilibrare le tensioni familiari. L’intento è trasparente, laddove si consideri che il veloce libretto è dedicato ai prediletti nipoti. A loro, accantonando la proverbiale introversione, l’illustre avo consegna una testimonianza sincera e uno scrigno di storie scarne ma innervate di robusti principi: la misura e il rigore, l’etica del lavoro e il senso del dovere, la responsabilità e l’uso prudente e parco delle parole, perché «chi parla tanto, poco sa». Tutto è funzionale alla trasmissione di questi messaggi e la parte davvero degna del libro è l’avvio, in cui Zoff espone pacatamente ma ossessivamente i medesimi precetti, attraverso gli eventi che suffragano la sua norma di vita. Il resto fa (ridotto) volume e lascia molta curiosità insoddisfatta sulle numerosissime vicende di cui Dino fu protagonista diretto o ravvicinato testimone. In un certo senso, si potrebbe dire, Zoff l’autobiografia l’aveva già mandata alle stampe qualche anno fa, senza tanto clamore, quando accettò di firmare la postfazione alla riedizione di Azzurro tenebra dell’amico Giovanni Arpino. Quelle asciutte e dense chiose, in calce al romanzo che rievoca la deludente spedizione italiana ai Mondiali del 1974 come metafora di un paese tragicamente votato al declino materiale e alla decadenza morale, contenevano già la summa del messaggio che Zoff ripete nel testo pubblicato da Mondadori. Se Open, la fortunatissima biografia di Andre Agassi, ha imposto un nuovo realismo e un’inedita intimità nel resoconto delle vite dei campioni, Zoff si tiene alla larga da quella cifra narrativa e mantiene ben serrati cuore e testa, o almeno li apre quel poco che gli consente la convinzione che i momenti che contano non devono essere offerti al pubblico, siano essi gioie o dolori. Il testo tuttavia è interamente centrato sulla sua figura. Le persone care vi compaiono per rapidi cenni, su tutto prevale l’introspezione, il racconto di sé e la sobria analisi dei processi decisionali. Si scopre pertanto uno Zoff insolito, tetragono ma ribollente, narciso e sicuro come devono essere tutti i portieri, gratificato dal sapersi lì, inerme agli sguardi della folla e ultimo guardiano di una linea di difesa cui è ancorato da una feroce concentrazione, unica alleata di fronte agli attacchi degli avversari e all’incomprensione dei compagni, che non possono capire la specificità del ruolo. Il lavorio interiore domina e toglie respiro ai fatti e alle persone che li vivono. Tutto scorre rapido, Zoff accenna più che dettagliare, predilige l’ellissi e in certi casi addirittura l’omissione. Poco o nulla viene detto di compagni di strada come Giacinto Facchetti o Gigi Riva, al pari di Zoff considerati fulgidi esempi di hombre vertical; a stento tratteggiati, passano altri mostri sacri dell’epopea juventina come Giampiero Boniperti, Giovanni Trapattoni, Roberto Bettega o Michel Platini; appena maggiore attenzione meritano Omar Sivori e Marco Tardelli. In veloci righe sono liquidati i mondiali d’Argentina, disputati sotto la cappa della dittatura di Jorge Videla, e poche di più ne merita il trionfo di Spagna, da cui esce però una rispettosa rappresentazione del rapporto con il presidente Sandro Pertini. Scorrono via veloci le poche sconfitte dolorose, le due finali di Coppa Campioni lasciate all’Ajax e all’Amburgo, o l’aspra rivalità stracittadina con i cugini granata, che negli anni ’70 costituivano una seria minaccia al predominio bianconero. Niente è addirittura detto del calcio-scomesse, che pure lambì la Vecchia Signora, appiedò Paolo Rossi e gettò una luce sinistra sullo sport nazionale; né è spiegato alcunché sul ruolo egemonico della Juventus, che almeno per la metà degli appassionati italiani non si può non ricondurre a quella che Costantino Rozzi, il ruspante presidente dell’Ascoli, chiamava la «sudditanza psicologica» della classe arbitrale nei confronti dei poteri settentrionali. La reticenza è accantonata soltanto per l’amato Gaetano Scirea e l’ammirato Enzo Bearzot, poiché entrambe le figure condividono e puntellano l’universo valoriale di Zoff. Morto in auto in Polonia dove era stato spedito proprio da Dino per visionare gli avversari di un confronto europeo, il primo è rimpianto, con senso di colpa non sopito, come archetipo del campione che è tale per doti prima umane che tecniche e per la vocazione naturale alla leadership, esercitata con garbo, stile e purezza interiore. Il secondo, il «padre» di tutti i ragazzi del Mundial spagnolo, si staglia in tutta la propria statura morale, segnata da un’onestà feroce e da una lezione di umanità e dignità non compresa dal superficiale mondo del calcio, che lo rigettò come un corpo estraneo. La stessa estraneità cui Zoff attribuisce anche il suo pensionamento precoce, dovuto a un trapasso di coordinate esistenziali, al prevalere dell’apparenza sulla sostanza, della confezione sul contenuto e di cui gli fornì inaspettatamente la prima dimostrazione l’Avvocato Agnelli, che lo congedò da allenatore della Juventus al termine di una stagione pur coronata da successi prestigiosi, soltanto per far posto al nuovo che avanzava, a quel Luigi Maifredi che si sarebbe rivelato un «falso profeta», persino incapace di qualificare la Vecchia Signora per le competizioni europee, per la prima volta in 28 anni. Nel luglio del 2000, all’indomani della finale europea che l’Italia cedette alla Francia dopo esser stata in vantaggio fino ai minuti di recupero, giunse l’intemerata di Berlusconi, che accusò il ct Zoff di aver lasciato troppo spazio a Zidane e di essere indegno del ruolo. Il friulano tutto d’un pezzo trascorse una notte insonne, furioso per quelle parole che avevano leso la sua dignità di lavoratore. Il mattino dopo, i giornalisti lo ascoltarono dimettersi con poche e definitive parole. Si chiuse la porta alle spalle, Dino, e nessuno l’avrebbe più riaperta, privando il calcio italiano di una dei pochi uomini che avrebbero potuto porre un argine alla discesa che ancora oggi continua senza sosta.