Ad Aleppo non c’è spazio per la vita. È la morte a infilarsi in ogni angolo, la distruzione a permeare ogni momento. La “grigia”, la capitale del nord, è ombra di se stessa, oggi solo campo di battaglia: un sinistro destino, qui potrebbe decidersi la guerra civile siriana.

Jamana al-Ahmed vive nella zona ovest, sotto il controllo del governo: «Dopo la rottura dell’assedio da parte dei ribelli, c’è stata un’impennata dei prezzi dei beni primari e del carburante – racconta a Middle East Eye – Prima avevamo elettricità per 10 ore al giorno, ora 5. L’acqua è nella pratica inesistente da due settimane: al massimo due ore al giorno. Senza elettricità non abbiamo acqua».

Ieri l’allarme lo ha dato l’Onu: due milioni di persone rischiano di restare a secco, non c’è acqua da 4 giorni mentre fuori si sfiorano i 40 gradi. L’Unicef parla di «catastrofe imminente» e del serio pericolo della repentina diffusione di malattie.

Un numero che sovrastima, però, la realtà di Aleppo: nel 2012, prima che la guerra civile penetrasse, i residenti erano poco più di 2 milioni. Ma centinaia di migliaia se ne sono andati, chi quattro anni fa, chi negli ultimi mesi. Centinaia di migliaia quelli rifugiati in Turchia prima della politica delle porte chiuse e tantissimi quelli bloccati alla frontiera. I più fortunati sono nelle zone controllate dalle Ypg kurde.

Sarebbero 250-300mila i civili intrappolati nei quartieri orientali controllati dalle opposizioni laiche e islamiste. Incerto anche il numero dei residenti a ovest: 1,2 milioni, probabilmente di meno. Ma al di là dei numeri la crisi umanitaria è esplosiva. Per questo, ieri, le Nazioni Unite hanno fatto appello alle parti: cessate il fuoco subito, per almeno 48 ore, indispensabili a portare aiuti alla popolazione stremata.

Invece degli aiuti arrivano altre armi: dopo la rottura dell’assedio e l’occupazione della base di Ramousa, a sud-ovest, da parte degli islamisti di Ahrar al-Sham e Jabhat Fatah al-Sham (l’ex al Nusra), Damasco ha inviato 3mila uomini in più, tra cui combattenti di Hezbollah, miliziani iraniani e iracheni delle Harakat Hezbollah al-Nujaba.

Le opposizioni fanno lo stesso: con le vie di transito riaperte, centinaia di miliziani stanno entrando dalla vicina provincia di Idlib, in mano all’ex al Nusra. «È iniziata una nuova fase per la liberazione di Aleppo – si legge nel comunicato della federazione islamista Jaysh al-Fatah – Stiamo raddoppiando i combattenti».

«Al confine [turco] ieri abbiamo contato decine di camion che portavano armi – dice un attivista siriano al Financial Times – Succede da settimane: armi, artiglieria pesante, non semplici pistole e munizioni». Così, aggiunge, l’assedio è stato rotto, con un flusso enorme di armamenti dal Golfo transitati via Turchia.

Più armi, più guerra. Il fronte delle opposizioni si è compattato come mai prima: la debole meteora dell’Esercito Libero Siriano (finanziato dall’Occidente per anni attraverso il suo braccio politico, la Coalizione Nazionale di stanza in Turchia) ha lasciato la guida delle operazioni ai nemici-amici islamisti.

Isolati militarmente, i moderati si accodano a salafiti e qaedisti, non certo garanzia di futura democrazia. Ma sono loro ad avere il denaro necessario a mobilitare i miliziani, grazie alle generose donazioni da Golfo e Turchia.

Alla potente controffensiva delle opposizioni Damasco reagisce con rabbia: i raid sono continui e, raccontano alcuni residenti, ad operare sul terreno è la polizia politica che va a caccia di presunti collaboratori dei “ribelli”. I morti si moltiplicano: gli ospedali parlano di 100 cadaveri negli ultimi giorni. Almeno 130 i civili uccisi da entrambe le parti da fine luglio.

Da fuori la comunità internazionale sta a guardare. Una situazione surreale: si vocifera di un nuovo round di negoziati per fine agosto con la guerra che impazza. La battaglia di Aleppo è l’ultimo chiodo sulla bara del dialogo: nessuno riesce a vincere, Aleppo lo dimostra, ma nessuno intende negoziare.

E ci si dimentica del nemico comune, lo Stato Islamico, che resta più o meno dov’è. A combatterlo restano i kurdi di Rojava che lunedì hanno annunciato la definitiva liberazione della città di Manbij.

Sul campo c’è anche qualcun altro, alla fine catturato dagli obiettivi: foto pubblicate ieri dalla Bbc mostrano forze speciali britanniche al confine con l’Iraq, impegnate sul terreno a bordo di veicoli blindati equipaggiati con artiglieria pesante, vicino al luogo di un attacco dello Stato Islamico.

Starebbero difendendo una base militare del New Syrian Army (Nsa), fazione armata costruita a tavolino lo scorso novembre dalla Cia che non si è per ora distinta in alcuna operazione di rilievo. E se Londra insiste nel dire che si tratta di truppe con meri compiti di difesa e non di attacco, va ricordato che il parlamento britannico non ha mai approvato simili operazioni di terra, limitandosi a dare il via libera solo ai raid aerei contro l’Isis.