Di fronte a quanto sta emergendo nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Potenza, le dimissioni della ministra Federica Guidi sono un atto dovuto. Il presidente del Consiglio dovrebbe chiedere scusa a quei «comitatini», ovviamente soprattutto a quelli lucani, che ha ripetutamente deriso. Comunque vada a finire, questa inchiesta rappresenta una clamorosa bocciatura di un premier che ha subappaltato la politica energetica nazionale a Confindustria.

Ricordo che la ministra allo Sviluppo Economico indicò, al momento del suo insediamento, tra le priorità del suo dicastero proprio la ripresa degli investimenti privati per la ricerca e la produzione di idrocarburi e la centralizzazione delle competenze in materie di infrastrutture energetiche strategiche per sconfiggere la conflittualità crescente nei territori. Renzi di suo ci aggiunse le battute offensive verso gli ambientalisti, rei di ostacolare la ripresa economica del paese.
Le indagini riguardanti il compagno della ministra Guidi danno l’idea di quanto sia forte il legame tra una certa politica e le lobby del settore petrolifero (e non solo) e di quale sia lo stile di questi presunti rottamatori. D’altronde ci è capitato di denunciare nel recente passato che persino nei loro rapporti agli azionisti società petrolifere straniere facevano riferimento a interlocuzioni positive con il governo italiano.

La lettura delle intercettazioni ampiamente giustifica la radicata diffidenza verso una classe dirigente che non è credibile quando cerca di contrabbandare come dettate dall’interesse nazionale norme e decisioni che non lo sono per nulla. La politica energetica di questo paese dovrebbe essere affidata a persone competenti e indipendenti dagli interessi privati in campo. Questo non è accaduto da troppi anni e il governo Renzi lungi dal rappresentare una discontinuità rispetto al passato si è fatto interprete di una più arrogante riproposizione di un’impostazione bipartisan che ben conoscevamo. L’inchiesta e le dimissioni di Federica Guidi costituiscono una plateale smentita delle argomentazioni con cui il governo e i portavoce della lobby petrolifera hanno tentato finora di delegittimare le ragioni della battaglia No Triv e del referendum del 17 aprile.

Da settimane ci ripetono – come d’altronde hanno sempre fatto – che le attività legate all’estrazione e alla lavorazione del petrolio in Italia non presentano problemi di impatto ambientale e che tutto è sotto controllo. Gli ambientalisti e le comunità locali sono stati dipinti come i soliti «nimby» luddisti e sprovveduti. La realtà è ben altra e dal basso nel corso degli anni si è sviluppata una competenza diffusa e una socializzazione dei saperi che hanno accompagnato e stimolato le mobilitazioni popolari. Una puntuale attività di studio, ricerca e denuncia portata avanti da attiviste e attivisti ha disvelato i danni già compiuti e i pericoli insiti nelle scelte energetiche, nelle norme approvate a raffica a favore dei petrolieri, nelle complicità e negligenze dei pubblici poteri a tutti i livelli. L’interesse generale e il futuro del paese è stato difeso proprio da chi ha cercato di tutelare i nostri mari e il nostro territorio rispetto a una politica che ci sta condannando in campo ambientale e sociale a una sorta di terzomondizzazione. I tanto vilipesi «comitatini» hanno incalzato i livelli istituzionali più vicini ai cittadini come le Regioni spingendole a collocarsi su posizioni critiche prima su singoli procedimenti autorizzativi e poi anche sul piano politico generale con la richiesta dei referendum.

La mobilitazione e la presentazione dei quesiti ha prodotto già importati risultati come la reintroduzione del divieto entro le 12 miglia dalla costa. Lungi dall’essere inutile, superfluo o dannoso come sostengono gli esponenti del Pd il referendum del 17 aprile rappresenta un’occasione, insieme alla “primavera referendaria” che sta per iniziare, per rimettere le scelte strategiche per il futuro del paese nelle mani dei cittadini.

Prc/Altra Europa