Il referendum greco, quale che sarà il suo risultato finale, segna uno spartiacque nella vicenda europea. Per la prima volta la tesi sull’insostenibilità sia democratica che economica dell’attuale assetto dell’euro esce dall’ambito dell’analisi intellettuale e si traduce in un atto politico. Non la solita generica invocazione di un’altra Europa, ma un gesto con il quale un leader e una forza politica mettono totalmente in gioco la propria funzione per scardinare un equilibrio di potere lesivo degli interessi popolari che si vogliono rappresentare. Questo atto non lo hanno compiuto i leader del socialismo europeo al governo nei Paesi più importanti.

Né il capo dei socialdemocratici tedeschi Gabriel, saldamente aggrappato all’alleanza presente e futura con la Merkel ed esplicito fino all’ingenuità nel motivare la linea dura con l’assoluta indisponibilità tedesca ad accettare un qualsiasi cambiamento delle regole dell’eurozona. Né il presidente francese Hollande, rapidamente convertitosi al mantra delle riforme strutturali con la nomina del governo Valls. E neppure il premier italiano Renzi, che dopo il 41 per cento delle europee dell’anno scorso ha trasformato la lotta all’austerità in una innocua retorica a uso di tweet e comizi, scegliendo invece nella sostanza un’asse con la Merkel, a cui ha portato in dote il contenimento salariale garantito dal jobs act in cambio di qualche decimale di flessibilità sui conti.

In questa débâcle storica delle sinistra riformista europea è toccato al coraggio e forse anche alla disperazione del governo greco di Syriza ingaggiare una battaglia in totale solitudine per squarciare il manto di ipocrisie politiche e corposi interessi materiali su cui l’euro si è retto finora. Tsipras si è trovato ad agire nelle condizioni più difficili, con un mandato dell’elettorato greco che chiedeva contemporaneamente l’uscita dall’austerità e la permanenza nella moneta unica, isolato dagli altri leader socialisti e sotto la spregiudicata minaccia del default imminente brandita dai suoi interlocutori. La scelta è stata quella di non cedere al ricatto e di investire tutto su un nuovo pronunciamento popolare, il gesto di sfida più eversivo rispetto all’ortodossia post-democratica che regna a Bruxelles: quella per la quale una sola politica economica è ammessa e le regole europee sono sovraordinate rispetto sia al mandato elettorale dei governi che al contenuto delle Costituzioni nazionali.

Se prevarrà l’appello di Tsipras alla dignità e alla sovranità del popolo greco e vinceranno i no, la Germania e le forze creditrici che governano l’euro si troveranno finalmente inchiodate di fronte alla scelta fondamentale non più rinviabile (quella a cui non si sarebbe mai arrivati con i sempre più vacui appelli dell’europeismo responsabile e benpensante a favore della crescita o degli Stati Uniti d’Europa): o accettare il tabù impronunciabile, ossia la trasformazione dell’eurozona in una unione di trasferimento in cui i Paesi più ricchi aiutano i più deboli (come avviene in ogni vera unione politica e fiscale e in ogni area valutaria che ambisca a sopravvivere), oppure dimostrare che l’euro non è irreversibile, costringendo uno dei Paesi membri all’uscita.

Ma anche nell’ipotesi, purtroppo tutt’altro che remota, che tra i greci prevalga la paura dell’ignoto e vincano i sì, nulla sarà come prima. A quel punto sarà molto più difficile occultare la dura realtà: questo euro non è affatto solo una moneta, ma anzitutto un sistema di governo, in virtù del quale gli esecutivi nazionali traggono la loro legittimità non dal mandato elettorale ma dalla piena applicazione degli imperativi di Bruxelles. Un sistema di governo descritto dalla fulminante definizione data qualche anno fa dal premio Nobel e ispiratore della Reaganomics Robert Mundell: togliere agli Stati il controllo della moneta e del bilancio è stato il modo per portare Reagan in Europa senza passare per il voto degli elettori.

Anche se il governo di Syriza fosse sconfitto, quanti in Europa hanno a cuore il primato della democrazia e un’idea di società fondata sul lavoro e sull’uguaglianza dovrebbero essergli grati per almeno due buone ragioni: per averci provato fino in fondo mettendo in gioco la propria permanenza al potere e per aver disvelato la vera natura del sistema di governo dell’euro e l’illusione di poterlo cambiare con gli appelli e le prediche edificanti, senza affrontare e vincere una battaglia politica fondata anzitutto sulla rivendicazione dell’autonomia democratica e nazionale.
Per questo domenica, comunque vada, è decisivo far capire da che parte si sta e, in ogni caso, dopo il referendum non si potrà rimuovere la lezione greca. Anche in Italia, provando per un momento a lasciare sullo sfondo la discussione sulle appartenenze e sui contenitori e partendo da quella svolta culturale che occorre sia alla sinistra riformista che a quella radicale per ripensare il rapporto Europa, sovranità democratica e interesse nazionale. Senza questo ripensamento non basterà certo la scomposizione e riaggregazione di pezzi di personale politico per ricostruire nel campo del centrosinistra un progetto popolare, nazionale e di governo: un progetto che sappia accumulare sul piano interno l’energia politica necessaria per guidare su un sentiero costituzionale l’indispensabile recupero di autonomia decisionale del Paese e indicare la strada di una rifondazione del disegno europeo su basi di cooperazione, rispetto del principio democratico e pari dignità tra i popoli.
*deputato Partito democratico