Il nostro è uno sguardo da artisti e non da critici. Così i fratelli Coen hanno giustificato il «loro» Palmares, bizzarra motivazione a un verdetto che invece appare più che dettato dalla passione, perfettamente in sintonia con le esigenze dichiarate dal Festival sin dal suo debutto. Ha vinto la Francia, e in modo quasi imbarazzante, come quel doppio premio alla migliore interpretazione femminile che ha unito la recitazione sublime, sottilissima, di Rooney Mara in Carol di Todd Haynes (titolo che nei giorni scorsi era tra i premiabili) ai toni isterici e poco performance di Emmanuelle Bercot nell’egotrip ridondante del Mon Roi di Maiwenn.

Lasciamo da parte i nazionalismi, anche se un film come Mia madre (altro titolo quotatissimo) non avrebbe sfigurato tra i premiati. E le dietrologie, pure se si parla (sul quotidiano Liberation) di un incontro prima del verdetto tra la giuria, il presidente Lescure e il delegato artistico Fremaux i quali avrebbero suggerito che la Palma d’oro ideale era un film portatore di valori universali e ambasciatore dell’idea di cinema sostenuta dal Festival di Cannes.

Di certo Dheepan (che in Italia uscirà distribuito da Bim) celebra soprattutto le ambizioni cinematografiche nazionali, peraltro già sottolineate con cinque titoli in concorso (su 19), in chi venivano declinate tutte le possibili variazioni del cinema francese (sociale, Nouvelle Vague, autofinzione , celebrazione dei suoi miti con la coppia Depardieu-Huppert) formato Canal plus, perciò rassicuranti, riconoscibili.
La Francia del post-Charlie Hebdo, «sanamente» conservatrice che bene si esprime in una Cannes militarizzata dalla misure di sicurezza, ha bisogno di riaffermare la saldezza del proprio meccanismo sociale e dei suoi valori: se ci si pensa il film di Audiard ben si accorda al film di apertura, A testa alta, celebrazione reazionaria del sistema giudiziario transalpino (diretto tra l’altro da Emanuelle Bercot).

Dheepan dispiega un’ ideologia di pulizia lepennista affidata al migrante cingalese tamil, unico a preoccuparsi di trasformare il non luogo in posto abitabile, e di virilità eroica – al suo Paese era soldato – in una banlieau grigia di polverosa violenza, senza stato né legge se non quella delle gang alla Gomorra afro-maghrebine. E in perfetta globalizzazione d’autore unisce impegno civile e attualità, i profughi politici (anche se qui nonostante l’ispirazione alla vita del protagonista, nessuno ricordi che la «guerra civile» in Sri Lanka era più che altro la sistematica eliminazione della minoranza tamil messa in atto dal governo di Colombo) a qualche tocco populista che ricorda il cinema hollywoodiano alla Rambo (un guerriero nella giungla metropolitana se esplode fa una strage…) e persino Taxi Driver, ma rivisto in chiave caritatevole. Perché lo spettatore deve sempre tornare a casa contento – quello francese, in particolare, rassicurato pure dal fatto che il buon Dheepan raggiungerà l’agognato status quo middle class lontano dalla Francia nel posticcio squarcio britannico finale.

La legge del mercato. Il titolo del film di Stephane Brisè sembra riassumere al meglio uno degli imperativi del nuovo corso di Cannes, a presidenza Pierre Lescure, che alla scoperta di tendenze, e alla ricerca di «detour» dei grandi autori, sembra avere sostituito «tout court» l’evento mediatico, e di conseguenza il cinema fracassone e di star. Non a caso tutti i «grandi» film nazionali, come quelli di Garrel e Desplechin, sono rimasti fuori dalla selezione ufficiale, e insieme a quello che è stato l’evento del Festival, oltre che un potente esempio di cinema politico, Le mille e una notte, sono stati ospitati dalla Quinzaine.

Così come, all’interno di quella selezione ufficiale, sono stati marginalizzati opere e autori che poco si accordavano col gossip mediatico della grande macchina spettacolare, dove più che dei film si deve parlare del tacco a spillo obbligato sul tappeto rosso. Anche la Palma a Lindon appare obbligata a coronamento di questo sistema, e in un film il cui grado di realtà si misura interamente col protagonista, una star nazionale, che rasserena il pubblico sul livello cinico del precariato contemporaneo.
Non mancano tra i riconoscimenti le new entry come Yorgos Lanthimos, «creatura» di Cannes anche se è stato in concorso a Venezia con Alps, Michel Franco, con un inspiegabile premio alla sceneggiatura (forse perché Chronic è nato dal’incontro di Franco e Tim Roth al festival di qualche anno fa), e l’ungherese Lazlo Nemesz, enfant prodige della Cinefondation, un riconoscimento questo al format di film lab e fondazioni, forse più morbido dei diktat dei canali televisivi (almeno quelli italiani) ma altrettanto uniformante.

In questo orizzonte senza spigoli, che Cannes 68 celebra trionfalmente, le inquietudini formali e politiche di Hou Hsiao Hsien, col suo magnifico The Assassin (premiato per la regia, come si fa con un film «ben fatto» ma «di genere»), di Jia Zhang ke (dimenticato del tutto, nonostante l’unico aexequo logico con Rooney Mara sarebbe stata Zhao Tao) e di Mad Max: Fury Road (che tra gli americani in concorso sarebbe stato molto meglio di Gus Van Sant) non rientrano.