Situati, per l’immancabile ironia della sorte, a trecento metri l’uno dall’altro, sulla romana via Nazionale, il Teatro Eliseo e il Teatro dell’Opera danno insieme la perfetta fotografia della scena italiana, «nazionale» appunto. E in qualche modo, insieme, della «nazione» cui si vuole appellare il Partito democratico, o almeno il suo leader. I fatti sono noti, anche il manifesto ne ha ieri ampiamente riportato le cronache. All’Eliseo un ufficiale giudiziario con agenti in tenuta antisommossa, ha sfrattato l’attuale gestione artistica del teatro, su richiesta della parte maggioritaria della proprietà delle mura della storica sala romana, sospendendo di fatto il lavoro delle decine di persone che vi erano occupate, ma soprattutto mettendo fine all’attuale programmazione, e in particolare allo spettacolo di Emma Dante di cui si parla in questa pagina, ospite del Romaeuropa Festival. All’Opera al contrario, il lavoro è ripreso, dopo che la direzione dell’ente lirico della capitale ha ritirato i licenziamenti annunciati per orchestrali e coristi, avendo questi accettato di ridiscutere quelli che a molti erano parsi veri e propri privilegi, grandi o piccoli che fossero, uscendo dalla trincea del non mettersi in discussione, anche come «lavoratori», sebbene artistici.

 

Bisognerebbe far piazza pulita in realtà, per avere una immagine nitida, dei commenti ai due fatti che si sono intrecciati sui mass media, stracciavestiti o trionfalistici che fossero. Entrambi si portano dietro l’eredità di troppi difetti accumulati negli anni, e oggi quei commenti si appuntano sugli aspetti più esteriori e superficiali di entrambe le vicende.
L’Eliseo era stato rilevato dall’ingegner Monaci (e dalla sua poco «fedele» compagine che oggi gli volta le spalle) in un momento di disgrazia del glorioso teatro: dopo i fasti di Luchino Visconti, della compagnia Morelli-Stoppa e l’eterna giovinezza dei Giovani, erano arrivati anni opachi, dove a direzioni di smalto si alternavano manovre meno comprensibili (c’era di mezzo anche la P2). Quando la Toro assicurazioni, del gruppo Agnelli, decise di vendere, Monaci si presentò come il salvatore. Veniva dall’Autorità per le comunicazioni (ed era opinione comune sui giornali che vi sedesse in quota Rifondazione) e aveva una propria impresa tecnologica. Ma dopo una breve direzione affidata ad Antonio Calbi (tornato a Roma alla direzione dello stabile) decise di puntare sul proprio figlio Massimo, che divenne direttore. Ma questo è probabilmente un mestiere che non si può improvvisare, serve un’esperienza notevole per gestire due sale. Che in poco tempo, con una programmazione assai alterna, hanno perso il grosso degli abbonamenti (una fonte importante di liquidità preventiva) e fatto di gloriosi palcoscenici un luogo di passaggio per spettacoli d’ogni tipo. Senza pagare né l’affitto, né gli artisti che vi si esibivano.

 

Ora è Luca Barbareschi a scalpitare per dirigere quelle stesse sale. L’attore era stato chiamato da Monaci alla direzione, ma fu «dimissionato» prima ancora di iniziare. Ora torna, su commissione dei soci maggioritari della proprietà. Ma non è «il conte di Montecristo»: le sue imprese teatrali sono fallite nel tempo, e ogni volta si è dovuto rifugiare con la sua società verso le grandi produzioni Rai (con qualche polemica, a suo tempo, per essere contemporaneamente parlamentare di Forza Italia). Anche lui alza la voce, ma almeno ne ha qualche motivo. Fanno piuttosto impressione tutti gli altri: a parte Emma Dante che si è vista abbassare a forza il sipario su un proprio spettacolo, gli artisti che non sembrano preoccuparsi mai di dove vadano a esibirsi e con quali sicurezze, le istituzioni e i festival che sono garantiti da flussi supersicuri di danaro pubblico, gli attori che per tre pose in una fiction darebbero l’anima al diavolo (se esistesse), le associazioni di categoria che finora non si sa di cosa si siano occupate. Tutti si sdegnano e invocano una sorta di «giustizia» superiore per il mondo dello spettacolo. La chiusura di un teatro, per di più importante, è un lutto grave per la comunità, ovviamente; ma bisognerebbe chiedersi anche perché questo può succedere.

 

Non proprio la risposta, ma un elemento di chiarificazione viene dall’altra parte di via Nazionale, dalla povera Opera di Roma. Povera non economicamente (con tutti i milioni di euro che vi ha dirottato Alemanno), ma certo di non eccelso valore sul piano internazionale. Il fatto che finalmente direzione e masse artistiche abbiano trovato un accordo di comune sopravvivenza, sfata mitologie fasulle che si erano alimentate (sui giornali come in tv) che finivano con equiparare gli orchestrali dell’Opera agli operai della Thyssen Krupp.
Con un rischio vero, ora che entrano in vigore nuove (ma assai oscure e complesse) normative per lo spettacolo tutto. Ovvero il fatto che tra gli entusiasmi del ministro neofita Franceschini e lo smarrimento degli altri politici, usi e abusi dei teatranti italiani finiranno col dover sottostare a chi di fatto ha in mano il potere, ancora la casta dei superburocrati, grandi gattopardi e insindacabili «strateghi». Con buona pace di Renzi che voleva combatterli, e che per abbaiare contro tutti finisce pateticamente per «abbaiare alla luna», mentre le star (grandi, piccole e fasulle) stanno a guardare.