Il Comitato per il No ha depositato ieri in Corte di Cassazione 316.748 firme di cittadine e cittadini che chiedono che il referendum costituzionale ci sia e che avvenga contro la legge Renzi-Boschi, quindi su un quesito unico. La decisione di presentarle non è consueta poiché si tratta di un numero di firme chiaramente al di sotto della soglia delle 500mila previste dall’articolo 138 della Costituzione.

Ma sono firme autentiche, dietro ciascuna delle quali vi sono persone in carne ed ossa, che hanno così voluto così non demandare ad altri la convocazione del referendum. Rimane il rimpianto di non avere potuto o di non essere riusciti a fare di più. Ma sarebbe – ora – perfettamente inutile elencare le difficoltà, le ostilità, gli oscuramenti incontrati in questi mesi. O per converso la saturazione di tutti gli spazi da parte dei promotori del Sì. Piuttosto va almeno abbozzata una riflessione più di fondo.

Vi fa cenno anche Stefano Rodotà nell’intervista di ieri su questo giornale, quando parla di fallimento della coalizione sociale. In fondo la stagione referendaria, basata su quesiti che concernevano il lavoro, la scuola, l’ambiente, la difesa della Costituzione e l’abrogazione dell’Italicum mirava proprio a ricostruire quel tessuto di connessioni sociali, culturali e politici dalle quali poteva trarre alimento la ricostruzione di un movimento e di una forza di alternativa. Invece ognuno ha camminato per conto suo, o quasi. C’è chi ce l’ha fatta, chi è arrivato a pelo, chi è rimasto al di sotto dell’asticella. Ma così nessuno può cantare vittoria. Che fine farà, ad esempio, la proposta di legge sui nuovi diritti dei lavoratori se a discuterla sarà un parlamento dimidiato e asservito dal combinato disposto della “deforma” costituzionale e dai capilista bloccati e dal premio di maggioranza dell’Italicum? Un problema fin troppo evidente, che avrebbe dovuto porsi ben prima e con altra energia, e che perciò deve trasformarsi da subito in un cambio di passo. In un diverso e più aggressivo spirito da gettare nello scontro referendario d’autunno.

Tanto più che l’esito non felice del carattere potenzialmente unitario della stagione referendaria appare quasi paradossale se si tiene conto di quello che succede sull’altro versante.

Il tormentone sullo spacchettamento del quesito costituzionale, poi rientrato, e i rumors su un’eventuale disponibilità a rivedere l’Italicum come merce di scambio (su cui incombe il giudizio della Corte Costituzionale fissato per il 4 ottobre) sono stati solo gli ultimi segnali delle difficoltà crescenti dello schieramento renziano, attraversato dalla insorgente consapevolezza che la “politicizzazione”, nella forma della personalizzazione, dello scontro potesse nuocere al leader del Pd più che avvantaggiarlo. I sondaggi che danno il No in ascesa hanno contribuito a fare abbassare molte orecchie negli ambiti della maggioranza di governo. Giocare contemporaneamente la carta della politicizzazione – per giunta condita con il sapore di una resa dei conti interna – e quella dell’antipolica, su cui si basa la letale manomissione delle istituzioni della democrazia rappresentativa che è l’essenza della “deforma” costituzionale, era una contraddizione fin troppo evidente per non dovere palesarsi.

Ma se si complica la strada della “politicizzazione” plebiscitaria, acquista tenore la curvatura economico-sociale su cui le forze dominati intendono puntare per vincere il referendum. Dopo l’endorsement della Confindustria nostrana, è tutto un fiorire di entrate a gamba tesa da parte di associazioni e organizzazioni economiche internazionali e dei loro autorevoli organi di stampa.

La danza iniziata tre anni orsono dal famigerato documento della JP Morgan viene ai tempi nostri proseguita con gli interventi del Financial Times, del Wall Street Journal, dell’Economist fino alle esternazioni del capo della missione Italia del Fmi. Quest’ultimo chiude il cerchio parlando della necessità di agevolare il processo decisionale e quindi della indispensabilità della vittoria del Sì. La governabilità schierata senza infingimenti contro la rappresentanza politica. Ma vi è anche chi rovescia il rapporto, come George Soros che preannuncia a Renzi la sconfitta nel referendum se non risolverà in tempo la crisi bancaria italiana. Ovvero il referendum viene agitato sia come un grimaldello che come una minaccia. Nel complesso le cancellerie europee, in particolare quella tedesca, guardano al referendum italiano con l’unica preoccupazione che esso possa diventare ulteriore fattore di instabilità politica, dopo che questa è già stata alimentata da Brexit.

Lo stesso Fmi prevede per il nostro paese una recessione di lunga durata. Il che certamente significa che non sarebbe la vittoria del No a determinarla e strumentali i tentativi di farlo credere. Quello che invece è vero, è che la eventuale vittoria del Sì, connessa con la permanenza dell’Italicum, determinerebbe il coronamento di un regime oligarchico dopo anni di involuzione democratica e sarebbe un tappo nei confronti della protesta popolare contro il perpetuarsi di ricette neoliberiste. Perciò quel legame tra questione istituzionale, democratica e sociale, che non si è riusciti ancora a costruire nella raccolta delle firme, può e deve essere il motore vincente della campagna di questo autunno. La forza del No.