Troppi discorsi (e qualche invettiva) tra quelli ascoltati in questi giorni offrono una rappresentazione singolarmente deformata della politica internazionale e, in special modo, dei rapporti tra gli stati.

Una rappresentazione spesso primitiva e, per così dire, otto-novecentesca, che rischia di tradursi in una alternativa netta al punto da risultare implacabile. Insomma, o le cannoniere o le complicità in sordidi rapporti politico-economici. Non dico che tutto ciò sia estraneo alle relazioni tra stati, figuriamoci.

Dico, piuttosto, che non è a questa oscura dicotomia che quelle relazioni possono essere ridotte. É una premessa indispensabile, la mia, per sostenere che la difficilissima questione dei rapporti tra Italia ed Egitto “dopo il caso Regeni” va affrontata in termini autonomi e originali.

La tesi per la quale «tutto dipende dai petroldollari» e quella, correlata, «ma poi chi comanda è l’Eni» è tanto vana e impotente quanto la tesi della intangibilità assoluta degli equilibri geo-politici e dei rapporti bilaterali in atto. Ci si deve sottrarre a questa falsa alternativa, considerando che le relazioni con l’Egitto possono essere un campo aperto dove c’è ancora spazio e tempo (non troppo, ma c’è) per agire con determinazione e, allo stesso tempo, con duttilità.

Se ne è avuta prova inequivocabile in queste ore, quando i provvedimenti da noi proposti nei confronti del regime egiziano, contestati fino a un attimo prima perché estremisti e irresponsabili, ora vengono condivisi dalla gran parte degli osservatori e, sembrerebbe, dei decisori politici. Va da sé: il discrimine tra accettabilità e non accettabilità di quelle proposte è stato determinato, in questa circostanza, dal realizzarsi di una scadenza. Ovvero l’incontro, nei giorni 7 e 8 Aprile, della delegazione egiziana con quella italiana. Il fallimento di questo confronto ha determinato una forte accelerazione e ha reso possibile ciò che il giorno prima appariva impensabile (come il richiamo per consultazioni dell’ambasciatore italiano al Cairo).

Non si tratta, ora, di recriminare sul tempo perduto aspettando “La Scadenza”. Si tratta, piuttosto, di non dissipare altro tempo, e di assumere immediatamente quelle decisioni – come la pressione sui flussi turistici – che fino a ieri scandalizzavano tanti e oggi appaiono necessarie e ragionevoli, oltre che realistiche. E altrettanto può dirsi a proposito della necessità di rivedere in profondità le relazioni diplomatico-consolari tra i due Stati, nelle loro molte articolazioni: dalla cooperazione tra università a quella in campo sportivo, dai molti programmi culturali condivisi ai progetti di ricerca comuni. Non c’è il minimo dubbio che tutto ciò comporti un costo per l’Italia, ma implica un costo altrettanto o assai più rilevante per l’Egitto.

È questo fattore che finora è sembrato sfuggirci. Gravati come sembravamo, da una sorta di complesso di inferiorità, che non ci faceva riconoscere la posizione obiettiva di forza in cui l’Italia si trova rispetto all’Egitto. Si prenda il caso del giacimento di gas Zohr: non c’è dubbio che esso rappresenti per l’Eni e per l’Italia un’importante risorsa economica, ma se non ci rendiamo conto che lo è ancor più per l’Egitto, rischiamo di precipitare in una visione paranoide. Una visione secondo la quale sarebbe l’ente nazionale idrocarburi a decidere, in base ai propri interessi aziendali, la sorte delle indagini sulla morte di Giulio Regeni. Allo stesso tempo, se a non rendersi conto dell’entità della forza di cui dispone fosse proprio il governo italiano, il nostro paese perderebbe un essenziale strumento di pressione nei confronti di quel regime.

Perché questo è il punto: il richiamo dell’ambasciatore e un salto di qualità e di asprezza nelle relazioni con l’Egitto non devono comportare necessariamente la rottura dei rapporti politico-diplomatici, bensì il passaggio a una fase di più intensa negoziazione dove l’Italia possa esercitare con la massima determinazione la sua forza democratica e i suoi strumenti non bellici di condizionamento e di conflitto.

Per questo mi è capitato di insistere tanto – e l’ipotesi sembra essere considerata ora anche dal governo italiano – sulla possibilità che la Farnesina, attraverso l’unità di crisi, dichiari l’Egitto paese non sicuro. Non sicuro per migliaia e migliaia di anonimi egiziani così come è stato per Giulio Regeni e così come rischia di essere per tanti turisti, lavoratori, studenti e ricercatori italiani e europei che vogliano recarsi in Egitto per le più diverse ragioni. Come ha detto la madre, Giulio Regeni era «un giovane contemporaneo»: perché non operare affinché i suoi coetanei, le centinaia di migliaia di «giovani contemporanei» del nostro continente considerino, anch’essi, un paese «non sicuro» quello dove Giulio Regeni è stato sequestrato seviziato e ucciso?