E fu subito Spectra Couture. In diretta dalle più belle scene di Beautiful, la nuova famiglia presidenziale, quella che occuperà soprattutto i salotti della Casa Bianca di Washington, ha scatenato l’incubo della moda americana. E cioè, quello di non riuscire a raccontare un mondo moderno, aperto, progressista e creativo di livello internazionale e di essere prigioniero del livello esteticamente discutibile e macchiettistico dell’immaginario della junk television, di cui è espressione la casa di moda di Sally Spectra del famigerato serial televisivo, e dal quale i protagonisti della moda americana hanno sempre preso le distanze per paura che il resto del mondo li potesse confondere.

Appena è stata certa l’elezione di Donald Trump, senza neanche il tempo di una riflessione, praticamente tutti i designer americani, nella quasi totalità elettori di Hillary Clinton (come del resto Vogue, il loro magazine portavoce con alla testa la direttrice Anna Wintour) si sono affrettati a fare dichiarazioni dalle quali l’accettazione dell’elezione dell’impresentabile tycoon si accompagna a una presa di distanza, sia pure nella consapevolezza che chiunque di loro sarà chiamato a scendere a patti con lo stile “abito da sera mono-spalla con spacco alle 4 del pomeriggio” dell’ex modella senza permesso di lavoro e futura first lady Melania Knavs Trump, dovrà rispondere di sì.

Diane von Furstenberg, designer e presidente del Council of Fashion Designers of America, si affretta a dichiarare che proprio perché da gennaio 2017 gli Usa avranno questo presidente, «più che mai dobbiamo studiare, imparare, essere di mentalità aperta, essere generosi. Oggi più che mai, qualunque sia la voce che abbiamo, dobbiamo usarla per influenzare gli altri in modo che il nostro Paese possa esprimere quello che abbiamo più a cuore , cioè la sua apertura e la sua inclusività». Il riferimento alle politiche sull’immigrazione, dichiaratamente razziste di Trump, è evidente, come è evidente il rifiuto del mondo della moda all’intolleranza che l’elezione di questo futuro presidente porta con sé. Ed Filipowski, presidente di KCD, una delle più grandi agenzie di Pubbliche Relazioni e marito di Mark Lee, il Ceo del grande magazzino di moda Barneys, dichiara di essere «sopraffatto dalle e-mail di clienti e amici da tutto il mondo che esprimono lo shock per il risultato.

Ma la mia reazione è molto più umana e istintiva: sono così orgoglioso di aver vissuto la mia vita adulta in un’America liberale che ora sono angosciato da questo nuovo ordine di cose che si propone con un odio e pregiudizi verso la nostra cultura e senza alcun rispetto per la verità. Non riesco a sopportare nemmeno l’idea di vedere tutti i giorni la faccia di Kellyanne Conway (la manager della campagna elettorale di Trump, ndr) per i prossimi quattro anni». Anna Wintour di Vogue, che si era impegnata personalmente nella campagna elettorale di Hillary, ora che la sua sognata nomina di ambasciatrice a Parigi è perduta, non parla. Ma il direttore creativo di Bazaar, Stephen Gan, dice che «con questa elezione, abbiamo visto il lato più brutto che questo paese ha da offrire: il nostro lavoro deve ricordare alla gente quanto invece può esserci di bello. Dobbiamo lavorare di più per i valori in cui crediamo ed essere più coraggiosi anche nella creatività».

Insomma, uno shock in piena regola che dimentica un’altra regola fondamentale. E cioè che la moda è lo specchio dei tempi e quindi, se la politica e i media non si sono accorti di quello che avevano davanti, vuol dire che anche la moda non sa più osservare la società che veste.

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