«Siamo sempre più stanchi di queste accuse. È diventata una caccia alle streghe». Così il portavoce del Cremlino Peskov definiva ieri il rapporto declassificato dell’intelligence statunitense che accusa Mosca di pesanti interferenze nelle ultime elezioni presidenziali.

«Accuse senza fondamento comprovate da niente, fatte ad un livello amatoriale, emozionale – ha aggiunto – Continuiamo a smentire categoricamente ogni coinvolgimento». Il caso hackeraggio non si spegne. Eppure il rapporto, nella sua parte “pubblica”, non sembra poi così eclatante: le 16 agenzie Usa, tra cui Fbi, Nsa e Cia, affermano che non è stata individuata una manomissione del voto, ma che i servizi russi potrebbero aver avuto «accesso informatico a distretti elettorali di vari Stati» e usato intermediari (Wikileaks, DCLeaks, Gucciger) per spammare in giro informazioni. Lo stesso Assange reagisce: il rapporto è «imbarazzante, un comunicato stampa con scopi politici».

Il report spulcia i servizi giornalistici della governativa Russia Today e accusa di disinformazione le agenzie russe impegnate – si legge – nella pubblicazione di notizie false e leaks compiacenti ai presunti piani di Mosca. Di prove non ne sono state pubblicate, se così fosse stato la bufera sarebbe già scoppiata in tutta la sua gravità: il rapporto (sebbene imputi apertamente al presidente Putin di aver influenzato le presidenziali, denigrato la candidata Clinton e minato la fiducia nel processo democratico) parla solo della «forte convinzione» che un simile intervento più o meno diretto abbia spianato la strada al repubblicano Trump. Che aggiusta il tiro: dopo i primi tweet a caldo, sua preferenziale via comunicativa col mondo esterno, preferisce parlare per bocca del suo futuro capo dello staff.

Ospite a Fox News, Reince Priebus ha fatto sapere che Trump ha riconosciuto come validi i risultati del rapporto e che affronterà la questione hackeraggio entro i primi 90 giorni di mandato: «Non sta negando che soggetti in Russia siano dietro questa particolare campagna», ha detto Priebus senza però far riferimento a Putin, sponda del tycoon. Lo stesso fa il consigliere Kellyanne Conway: alla Cnn ha riferito che Trump crede che «Russia, Cina e altri abbiano tentato di attaccare diverse istituzioni governative, individui, società e organizzazioni».

A monte sta la pressione che Trump subisce sia da democratici che falchi repubblicani perché risponda in merito a quello che viene considerato lo show imbastito dalla Russia per far vincere il “suo” candidato. La palla rimbalza, assist perfetto a Mosca che da rapporti tanto vaghi cerca di fare tesoro di credibilità. In Occidente come nel resto del mondo, dove pesanti sono state e sono oggi le interferenze delle due super potenze, a partire dal Vicino e Medio Oriente dove si gioca la guerra fredda 2.0.

All’ex presidente afghano Karzai che ieri celebrava il tandem Trump-Putin come fonte di stabilità e pace, ieri rispondeva, con il lancio degli ultimi strali prima del cambio della guardia, il segretario della Difesa uscente, Ash Carter: Mosca ha fatto «virtualmente zero» nella lotta contro l’Isis e ha reso «la fine della guerra civile in Siria ancora più difficile» da realizzare. Probabilmente il solo commento giunto nelle ultime settimane dall’amministrazione Obama sull’andamento del conflitto, ormai pienamente gestito da Putin.

Se con un balzo si salta in Europa, si trova l’altro fronte dello scontro che Washington tiene alto prima dell’arrivo del “putiniano” Trump (il primo incontro tra i due si terrà dopo il 20 gennaio, data di inizio dell’incarico): si allarga il piano di addestramento e dispiegamento di truppe Nato al confine con la Russia, volto – dice il vice comandante del comando Usa in Europa Tim Ray – a «fare da deterrente all’aggressione russa, garantire l’integrità territoriale dei nostri alleati e mantenere l’Europa libera e in pace».

Così negli ultimi giorni sarebbero arrivati nel porto tedesco di Bremerhaven, direzione Polonia, Romania e Bulgaria, 2.800 veicoli militari e 4mila soldati Usa che guideranno a fine mese le esercitazioni congiunte. Il più grande dispiegamento di truppe statunitensi in Europa da 30 anni.