Dopo la scuola, ora è il turno dell’università. Erano in molti a pensare che la «Buona Università» – il nome scelto per sancire definitivamente l’esistenza di atenei di «serie A» e di «serie B» in Italia, come sostenuto dal Presidente del Consiglio Renzi in un discorso al Politecnico di Torino del 19 febbraio scorso– sarebbe arrivata in autunno. Invece il governo ha pensato di anticiparla a luglio con l’emendamento 13.38 all’articolo 13 della riforma della Pubblica amministrazione presentato dal deputato Pd Marco Meloni (già lettiano e ex responsabile università del Pd) in commissione Affari Istituzionali alla Camera. Nei fatti è l’abolizione del valore legale della laurea come criterio qualificante per l’accesso ai concorsi pubblici. Così è stato inteso ieri l’emendamento da rettori, studenti e sindacati, uno schieramento non certo «naturale»: «Allucinante», «classista», «incostituzionale», «brutta copia del modello americano», «aggraverà le disparità tra atenei del Sud e del Nord».

L’onda dell’indignazione ha travolto Meloni il quale intendeva escludere dai concorsi per la P.A. requisiti come «laurea di primo livello con voto minimo 100» e vincolare il voto medio a quello conseguito dalla facoltà nell’ambito – probabilmente – della valutazione dell’ente dedicato a questo scopo, l’Anvur creato dalla riforma Gelmini. Contro il governo si è alzato un fuoco di fila: dal presidente della Crui Paleari («Stanno pensando di abolire il valore legale del titolo di studio?») alla Funzione Pubblica della Cgil (Dettori: «Introdurranno una nuova diseguaglianza tra studenti di serie A e B») e alla Flc-Cgil (Pantaleo: «Dove starebbe il merito in tutto questo? Diminuiranno ancora le iscrizioni, soprattutto nel sud anche per l’assenza di una seria legge sul diritto allo studio»).

Ci si è messa anche la politica con il Movimento 5 Stelle: «Dopo la riforma della scuola, una nuova porcata – sostengono i parlamentari – Renzi spacca in due il paese». Per il coordinatore di Sel Nicola Fratoianni non è «una selezione per censo. Questo è classismo». E gli studenti: «Questa norma incentiverà la concorrenza tra gli atenei, è una variante dell’abolizione del valore legale del titolo di studio sostituito dalle classifiche contestate dell’Anvur – sostiene Alberto Campailla del coordinamento universitario Link – Lo diciamo subito: non siamo disposti a discutere. Bloccheremo queste follie». «È una politica completamente scollegata dalle condizioni reali degli atenei e degli studenti. Siamo stufi che continuino a giocare sulla nostra pelle» ha aggiunto Gianluca Scuccimarra dell’Udu.

Poi è arrivata la conferma da parte dello stesso Meloni. Lui era intenzionato a escludere la laurea di primo livello dai requisiti per i concorsi (dove ci sono), stabilendo «il voto medio di laurea di classi omogenee di studenti». Al resto ci ha pensato il governo che ha introdotto «un critedrio di delega tale da definire una differenziazione tra atenei» sostiene Meloni. Il fuoco di fila ha prodotto un risultato: è stato dunque il governo, e non un semplice deputato, a volere trasformare la valutazione della ricerca e della didattica degli atenei a criterio integrativo per l’accesso ai concorsi pubblici. Nei fatti un grave attacco al principio del valore legale del titolo di studio che non gode certo di buona salute ed è costantemente oggetto di attacchi, soprattutto dall’inizio della crisi, da parte di tutti i governi dell’austerità e delle piccole o grandi «intese» (confindustriali). Meloni ha aggiunto una frase non certo rassicurante: «Se il governo e la maggioranza intendono mantenere questa impostazione, è necessario definire il criterio di delega e le intenzioni del governo nel successivo decreto». In altre parole, attraverso un emendamento trasformato dall’intervento diretto del governo si cerca di far saltare un grappolo di norme costituzionali, senza aspettare la riforma che potrebbe negare ai docenti il contratto da dipendenti pubblici e applicare un Jobs Act ai ricercatori precari (questi gli annunci della responsabile Pd scuola-università Francesca Puglisi).

Il progetto del governo Renzi risale, in realtà, a un’iniziativa analoga adottata dal governo Monti nel gennaio 2012. Allora si cercò inutilmente di abrogare il valore legale della laurea, modificando il sistema di «accreditamento» degli atenei e privilegiando quelli «eccellenti» da quelli più poveri del Sud ai quali sarebbero stati erogati fondi decrescenti. L’ossessione è rimasta la stessa: una laurea presa a Bari non deve avere lo stesso valore di una presa alla Bocconi di Milano.